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Il Reame delle Fate

di Salvatore Di Sante

Dove diavolo era finito stavolta? Districarsi con la tuta spaziale in quel groviglio di vegetazione era un incubo. A ogni passo inciampava con lo stivale in una radice affiorante e, se non cadeva all'avanti, al passo successivo rischiava di impiccarsi, col casco che si impigliava in una liana o in uno di quegli strani rampicanti viola. Imprecava e malediceva la calura di quell'inferno verde, quando a un tratto si bloccò: gli parve di sentire una voce. Cercò di seguirne la provenienza. Più avanzava più la voce si faceva nitida. Adesso erano più voci. Voci di donne. Parlavano, ridevano e scherzavano. Voci di donne e scorrer d'acqua. Sprazzi d'azzurro screziato d'oro s'intravvedevano tra i cespugli che gli sbarravano il cammino. Si accovacciò e procedette con la massima cautela. Le voci erano vicinissime. Si tolse il casco, scostò un po' le foglie e sbirciò. Nel lago vide cinque ragazze che facevano il bagno, nuotando e schizzandosi. Spiccava una folta chioma rossa, le altre quattro erano tutte bionde. - Scusate ragazze... - esclamò alzandosi in piedi e sbracciandosi.
Appena lo videro, tutte lo additarono iniziando a gridare.
- Tranquille, non vi faccio niente, mi sono perso e... - non riuscì a finire la frase. Sentì un dolore acutissimo irraggiarsi dalla nuca e le gambe farsi molli, mentre tutto iniziava a girare e diventava sempre più sfocato.

***

Le palpebre sembravano incollate. Mise lentamente a fuoco la folla che lo scrutava. Cercò di alzarsi ma scoprì di essere legato a un tronco d'albero. La testa gli pulsava terribilmente. Chissà che ne avevano fatto del casco. Addio casco addio viaggi!
- Ci stava spiando. Giù al lago, mentre facevamo il bagno, maestà. - Era la ragazza rossa di prima, a pochi metri da lui. Completamente nuda. Lo guardava con disprezzo, ostentando fiera il suo corpo statuario.
Alan si guardò intorno. Era circondato da una moltitudine di ragazze tutte assolutamente nude e tutte assolutamente bellissime. Parevano fatte con lo stampo: i lineamenti e le fattezze erano quasi identici, differivano solo per il colore degli occhi e dei capelli. “Cos'è questa, l'epoca dei cloni?” pensò, sforzandosi di concentrarsi sui visi e su nient'altro più in basso.
Stava per replicare quando una voce perentoria lo anticipò, zittendolo. - Chi sei, straniero? E perché sei venuto nel mio regno? Questo è il Reame Fatato, qui non sono ammessi uomini. Lo stuolo di fanciulle si aprì per lasciar incedere lei. La regina. Era diversa da tutte le altre, era l'unica coi capelli corti (a caschetto, corvini) e con due imponenti ali di farfalla che ondeggiavano placide dalla schiena.
- Ma cosa... quest'aggeggio non funziona, - farfugliò Alan guardando il cronotraveler che aveva al polso. “Questa non è un'altra epoca, questo è un altro mondo,” pensò.
- Sono Liael, regina delle fate. Tu chi sei? - disse ritta davanti a lui.
- Mi chiamo Alan e sono un crononauta.
- Un crono... che?
- Viaggio nel tempo. Devo salvare il pianeta Terra da un asteroide...
- Viaggi nel tempo? Sei uno stregone allora! E vieni pure da un altro pianeta?! - lo apostrofò la regina.
- Mente! - si levò una voce. - Sì, mente! E' uno stregone malvagio! - fecero coro le altre.
- No no no! - gridò Alan. - Ho detto la verità! Voi casomai sarete streghe... guardati lì, con quelle ali di farfalla...
Dalla folla si levarono grida di sdegno e di accusa. - Silenzio! - tuonò Liael furiosa.
- Se mi liberate posso spiegarvi tutto. Ah, no! Il casco, mi serve il casco, dove...
- Questo? - Una delle fate si fece largo tra le compagne e apparve col suo casco in mano.
- Esatto. Se prendo il registratore lì dentro posso farvi vedere...
- Attento a te straniero, - lo ammonì la regina. - Dicci la verità oppure... - indicò un punto vicino ai suoi piedi. Dall'indice scaturì un raggio che investì un sasso; la pietra prese vita trasformandosi in un rospo e si allontanò zompettando e gracidando.

***

- Scusaci se ti abbiamo trattato come un usurpatore. - Liael in persona gli servì un nettare delizioso. Tutte le fate lo riverivano come un ospite di riguardo, il banchetto che avevano allestito per lui era favoloso. Alan mangiava e beveva senza complimenti e senza avere la minima idea di che pietanze o bevande fossero; tutte cose squisite, questo era l'importante, anche se dai colori e dalle forme più inusuali.
Aveva recuperato il micro-proiettore olografico (incorporato nel casco) che fungeva anche da videocamera, in cui erano memorizzati tutti gli eventi, dalla scoperta della minaccia dell'asteroide fino al più piccolo dettaglio sui viaggi effettuati.
“Quasi quasi rompo il cronotraveler, così rimango qui per sempre... che pacchia!” pensò Alan rimirando le dozzine di fanciulle nude che si affaccendavano premurose al suo tavolo sorridendo e porgendogli ogni ben di Dio.
Come se il cronotraveler lo avesse sentito iniziò a bippare come al solito e in men che non si dica Alan fu risucchiato nel gorgo spazio-temporale e sparato in chissà quale altra avventura.
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Dei o straccioni?

di Luca Mencarelli

Apparvero all’orizzonte di una mattina come tante, un puntino nero che vacillava sulla cresta delle dune. Poi si scisse in una figura, due, dieci, un’intera folla che avanzava tremolando sullo sfondo sabbioso. Saliva in alto, sul picco di una duna, e poi sprofondava in basso, fino a riapparire sopra a quella successiva, un po’ più vicino. Un continuo saliscendi che rifletteva sul paesaggio i tratti dell’animale simbolo di quell’ambiente: il dromedario.
Alla fine, quando furono a circa metà di tiro d’arco dall’accampamento, io e gli altri ragazzini potemmo distinguerli con precisione dall’alto delle palme su cui ci eravamo arrampicati. Una processione muta e cenciosa di vecchi, donne e bambini che si trascinava stancamente crinale dopo crinale. Granello dopo granello.
Chi erano? E soprattutto, da dove venivano? A giudicare dalla posizione del sole, che batteva impietoso di fronte a loro, provenivano da occidente, ma tutti sapevamo che era impossibile. Sì, perché al di là del mare di sabbia si innalzavano gli impenetrabili monti che segnavano la fine delle terre abitate. E più oltre l’oceano delle acque che abbracciava l’intero mondo. Così ci avevano insegnato, sebbene fosse difficile per noi immaginare una tale distesa marina, abituati come eravamo alle sporadiche polle che emergevano qua e là insieme alle palme. Se nessuno, oltre a noi e alle tribù più a sud, abitava in questa parte di deserto, chi potevano essere quegli sconosciuti? Il timore e la curiosità montavano in noi, di pari passo con il loro tragico incedere.
Il sole aveva ormai compiuto metà del suo tragitto nel cielo, e per allora la notizia degli stranieri in avvicinamento si era ormai sparsa tra le tende, quando essi giunsero al limitare del campo. Senza dire una parola vennero scortati dagli adulti fino alla tenda centrale, per essere rifocillati e riposare, come si usa fare tra i popoli del deserto quando si incontra qualcuno in difficoltà. Prima lo si aiuta, poi ci si conosce.
Mentre ci passavano davanti li osservammo meglio. I loro abiti, sebbene logori e coperti di sudicio, emanavano una flebile bellezza, lo splendore residuo di un tessuto prezioso e a noi sconosciuto, e allo stesso tempo davano l’idea delle peripezie che dovevano avere affrontato nel lungo tragitto fin lì. I loro occhi erano velati di una patina grigia, come se il vento del deserto vi avesse depositato l’intera polvere che ricopre quelle distese desolate, ma in fondo a quelle orbite si poteva ancora notare uno scintillio ardente. Estrema testimonianza di un antico orgoglio tenace a morire. Il dettaglio che però ci colpì di più fu il loro portamento. Le loro schiene erano piegate. Ma non per la stanchezza, no, anche noi conoscevamo le fatiche di quelle traversate, e avevamo visto altri stranieri ridotti ben peggio di loro. No, non erano incurvati a causa della stanchezza, la ragione doveva essere un'altra. Era come se portassero su di sé il peso di tutti i peccati di questo mondo.
Dei nobili decaduti. Questa l’idea che ci facemmo.
-Sono tornati.- Disse il vecchio Assouf, masticando quelle parole sibilline insieme a qualche dattero, e mentre noi ci chiedevano che senso potessero avere, scomparve all’interno della sua tenda.
La sera, stretti intorno al fuoco per scacciare via il freddo delle lunghe notti sahariane, gli stranieri si unirono a noi. Allora, davanti alle fiamme tremolanti che si riverberavano sulle rughe dei loro volti, potemmo vederli da vicino, e ci rendemmo conto che la nostra prima impressione era sì giusta, ma sfiorava solo pallidamente la realtà. Le dita lunghe e affusolate appartenevano a mani di sovrani, non di lavoratori. Le facce riarse tradivano una pelle non abituata al sole impietoso del deserto. Lo sguardo era quello triste e fiero di chi un tempo contemplava le stelle e adesso è costretto a fronteggiare la miseria.
Quelli non erano semplici nobili. Si trattava di dei. Dei scacciati dai cieli.
Sedevano insieme, ammucchiati come un gregge spaventato, e nonostante l’aiuto ricevuto sembravano timorosi di noi.
-Da dove venite?- Chiese il nostro capotribù.
Ma dalle loro espressioni interrogative deducemmo che non capivano la nostra lingua.
Si fece allora avanti il vecchio Assouf, il custode della storia. La conoscenza del passato della nostra tribù gli era stata tramandata da suo nonno, che aveva ricoperto quel ruolo prima di lui, e ancor prima c’era stato il nonno di suo nonno, e così via in una catena interminabile di generazioni che risaliva fino all’origine del cielo e della terra. L’anziano dischiuse le labbra sdentate e fece uscire un suono melodioso, un siero di tè e miele che ci incantò tutti. Un amalgama di parole sconosciute, mai udite prima, che profumavano di paesi remoti nello spazio e nel tempo.
Nell’udirle, quelli ebbero un sussulto all’unisono. Evidentemente avevano capito il significato della frase. Un uomo, che dall’aspetto sembrava aver superato di molte lune l’età media di un uomo, si fece avanti. E mentre le lacrime cominciavano a incanalarsi lungo i suoi lineamenti crepati, rispose con una cantilena, a metà tra un lamento e una preghiera:
-Atlantide.-
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Se non mi ammazzano gli organici

di Spartaco Mencaroni

Il cielo livido era spazzato da un vento impietoso; raffiche improvvise si alternavano ad brevi vortici, rimescolando brandelli di vapori nerastri sullo sfondo argentato delle nuvole. Sotto quella cortina, l’immensa pianura era attraversata dalle tracce delle colonne corazzate, righe scure che serpeggiavano verso il niente, prima che il fango rimarginasse le cicatrici lasciate dai cingoli e dalle gigantesche ruote.

Il tenente stava incollato al visore; i capelli corvini, sottili come fili di seta, gli si incollavano continuamente al viso, impastato di sudore e sabbia, e il vento glieli sbatteva sulle tempie, come ciuffi d’erba nera. Gli facevano male gli occhi, scrutava l’orizzonte ingannevole, cercando di distinguere, oltre il fumo degli incendi e il riverbero degli scafi dei Droni, le colonne scure degli stormi di Uccelli che si levavano dai nidi in fiamme. Il dondolio discontinuo del carro lo sfiancava; era sul punto di crollare; le dita stringevano il calcio del mitragliatore, gli occhi stillavano una pasta di lacrime e sabbia.

Era quasi notte; il dispaccio indicava una posizione precisa in mezzo al nulla e il sistema di posizionamento del carro armato assicurava che l’avevano raggiungo. Ora doveva solo aspettare; aspettare che i Droni comparissero all’improvviso, fantasmi nel nulla, vomitando il loro carico di morte nucleare sulle tane degli Uccelli. Loro avrebbero sterminato quelli che tentavano di fuggire in volo. Semplice come l’inferno.

Il vento portava odore di morte; non quella dolciastra e pungente degli umani, non l’aroma intenso, di muschio e di terra smossa, delle tombe scoperchiate nei cimiteri. Era un lezzo immondo, irritante e violento, di carcasse organiche spolpate dal sole, di esalazioni letali e acide che salivano verso l’alto, facendo tremolare l’aria e nascondendo il sole dietro un sudario. Istintivamente, portò le mani alla gola, sentendosi soffocare; si sforzò di controllarsi e respirò più a fondo, facendo affluire nel tubo endotracheale nuova aria filtrata, dal lieve sapore metallico e frizzante di ioni di rame.

Se non mi ammazzano gli Organici, lo farà questa merda che respiro – pensò.
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Ricordi sulla statale

di Luca Salmaso

Dopo che ho rintracciato Max e tentato invano di convincerlo ad aiutarci, ritorniamo verso la porta d’ingresso di quello strano mondo, comodamente seduti sulla sua meravigliosa Cadillac Eldorado rosa. Max è il mago che ha evocato Jacques, il demoniaco fautore delle notti anarchiche e inquietanti che si svolgono, ormai da tempo, nella nostra casa di cura. Quel luogo surreale, che lui definisce, non so perché, paradiso, consiste in una strada, costeggiata su entrambi i lati da una brulla e sconfinata prateria, illuminata solamente dalla luce della luna. Si accede a quella realtà sospesa tra la vita e il sogno dal ripostiglio del nostro istituto, mentre da questa parte il passaggio assume le sembianze di una vecchia e disastrata cabina telefonica.
Ma cosa c’è al termine della strada? – gli chiedo, a un certo punto.
Ah, bella domanda, - risponde lui, ridacchiando, - ma cosa ti fa credere che ci sia una fine?
Ecco… non so, effettivamente. Vuole dire che è infinita?
- No, - replica, tornando serio, - non ho detto questo, per quanto sia una possibilità da prendere in considerazione.
Ma quanto lontano è arrivato? – insisto, preso da improvvisa curiosità.
Max alza lo sguardo, per un attimo, verso il pallido disco lunare. L’espressione trasognata dei suoi occhi mi fa pensare che sta ricordando qualcosa.
Ho fatto molti chilometri con questa carretta, - dice, - davvero molti. Ho visto cose che voi umani…
Già, - lo interrompo, alzando la mano, - questa l’ho già sentita. Racconti.
Beh, una volta ad esempio, ho incontrato Marilyn.
Vuole dire… quella Marilyn?
- Perché ce ne sono altre? Viaggiava su una macchina bianca, scappottata, simile a questa, a fianco di un bellimbusto che sembrava il gemello di Tony Curtis. Insomma ci incrociamo e io li guardo, mentre loro guardano me. Dopo un secondo, sento il clacson e i freni che stridono. Mi volto e inchiodo pure io. Osservo la scena nello specchietto. Lei scende, fasciata in un vestito mozzafiato, corre sui tacchi verso di me, si appoggia con una mano sulla portiera mentre con l’altra tiene una lunga sigaretta tra l’indice e il medio e mi fa: “hai del fuoco, Max? Siamo rimasti senza fiammiferi.” Rimango di stucco come un imbranato e non rispondo. D’improvviso dischiude le labbra in un sorriso… un sorriso che non dimenticherò mai. “Allora?” esclama. Io, dapprima, non so che pesci pigliare, poi penso che sono un mago, cavolo, e mi ricordo un vecchissimo film che guardavo da bambino, così metto il pollice dentro il pugno chiuso e poi… zac, di colpo lo estraggo. Sulla punta arde una viva fiammella che le porgo, sfoderando un ghigno da bullo di periferia. Vedo che è sorpresa. Avvicina la cicca, la accende, sta un attimo in silenzio, quindi mi dice: “grazie caro”, poi si gira e torna con calma verso la sua auto, ancheggiando sinuosa. Mentre si allontana dò ancora un’occhiata al retrovisore, appena in tempo per scorgere due piccoli fori scuri sulla bianca curva del collo.
- Era proprio lei?
- Chi lo sa, ragazzo. Per me era lei. O una che le assomiglia dannatamente. Ma che importa, forse non la rivedrò mai più. Comunque da allora tengo sempre una scorta delle migliori sigarette nel portaoggetti, non si sa mai.
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Alan il Crononanuta e Raperonzolo

di Ara Gorn

C'erano una volta un uomo e una donna che desideravano tanto avere un bambino, ma questo non arrivava. Nel retro della loro casetta c'era una finestrella che dava sul giardino di una strega. Era pieno di fiori ed erbe di ogni tipo, ma a nessuno era permesso entrarci. Un giorno la donna, che se ne stava affacciata alla finestrella, vide un'aiuola di meravigliosi raperonzoli e le prese una voglia tale che supplicò il marito di andarne a cogliere qualcuno. Il pover'uomo non seppe dir di no alla sua amata: s'intrufolò nel giardino proibito, strappò una manciata di raperonzoli e li portò alla moglie. Lei ne fece subito un'insalata e con la voglia che aveva se la mangiò di gusto. Le erano piaciuti così tanto che il giorno dopo era tre volte più vogliosa. Il marito capì che non gli avrebbe dato pace e quindi si calò di nuovo nel giardino. Ma la strega gli si parò davanti furibonda e gliene disse di tutti i colori poiché era tornato a derubarla nel suo giardino. L'uomo cercò di scusarsi spiegando che la moglie era incinta, che aveva le voglie e quanto fosse pericoloso non assecondarle.
- Va bene, - disse la strega - puoi prendere dal mio giardino tutti i raperonzoli che vuoi, purché tu mi consegni il figlioletto che tua moglie porta in grembo. Per paura l'uomo accettò.
Qualche mese dopo la moglie partorì una bambina e la strega puntualmente si presentò. Chiamò la bimba Raperonzolo e la portò via con sé, volando fra le nuvole a cavallo di una scopa.
Raperonzolo crescendo diventò una splendida fanciulla, con dei capelli lunghissimi e magnifici, fini come oro filato. La strega per invidia la rinchiuse in un'alta torre senza porta né scala, dove solo in alto in alto c'era una piccola finestrella. Quando la strega voleva salire a trovarla si metteva sotto la torre e chiamava:- Raperonzolo, Raperonzolo, sciogli la lunga chioma, lascia che penzoli...

Per fortuna un giorno giunse Alan, viaggiatore temporale destinato a salvare la razza umana. Abbagliato dalla bellezza di Raperonzolo, Alan azionò il jet pack e si librò in volo fino alla finestrella in cima alla torre. Raperonzolo, felicissima di scampare all'eterna prigionia, non ci pensò due volte e si tuffò fra le braccia del suo avveniristico salvatore. Alan la condusse al Paradiso Terrestre dove vissero insieme felici e contenti ed ebbero tre bellissimi figlioletti.
Quando la strega si accorse che Raperonzolo era sparita andò su tutte le furie e se la prese con un principe azzurro lì di passaggio, tramutandolo in rospo con un incantesimo.
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