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La promessa di Garibaldi
di Luca Salmaso
Quel pomeriggio ero a casa da solo e decisi di svagarmi, navigando nella realtà virtuale. Indossai i guanti e la maschera anatomica di fibra scura che mi copriva l’intero volto e le orecchie. Dapprima gironzolai per i siti di informazione, soprattutto quelli sportivi e poi passai ai giochi on line in tre d, contro avversari reali, collegati in rete. Tra quelli più in voga scelsi quello della battaglia spaziale vicino al sole. Lo trovavo intrigante, come vido-olo-game, perché, mentre si combatteva, era necessario anche impegnare il cervello e prestare attenzione a tutti i fenomeni solari, come le tempeste, le eruzioni, oltre, naturalmente, alla distanza, per non avvicinarsi troppo. Dopo aver giocato per alcuni minuti, in genere, si cominciava ad avvertire la sensazione di calore e la cosa assumeva tratti davvero realistici, al punto che spesso la vittoria arrideva, non al più abile, ma al più forte mentalmente, capace di resistere al disagio e mantenere la concentrazione.
All’inizio me la cavai piuttosto bene e costrinsi alla resa diversi “nemici”. Poi, però, accadde qualcosa sul sole. La grande sfera incandescente prese a ingrandirsi. La cosa non era prevista nel gioco e ogni giocatore protestava con gli altri, credendo che qualcuno barasse. Anch’io fui tempestato di domande, ma in realtà non ne sapevo nulla. La massa infuocata continuò a espandersi e presto ci avrebbe inglobato tutti. Stava per trasformarsi in una nova. Cominciai a sentire bruciore agli occhi per l’intensità eccessiva della luce. Provai a scollegarmi, ma non ci riuscii, i comandi non rispondevano Decisi allora di togliermi la maschera, senza aver spento, ma la cosa non era tanto semplice, dato che prima dovevo togliermi i guanti e poi la maschera, il tutto rimanendo nella realtà virtuale. Ci voleva del tempo, quindi, durante il quale l’intensità luminosa continuava ad aumentare, tuttavia, per fortuna la cosa venne risolta da… un uomo a cavallo. Sì, proprio così, in mezzo a sofisticatissime navicelle spaziali, comparve, dal nulla, uno strano personaggio, vestito con una camicia rossa e dei pantaloni azzurri, montato su uno splendido destriero. Dalla bocca dell’animale uscì un raggio di luce che colpì in pieno il sole e lo fece sparire. Di colpo tutto si calmò e mi ritrovai, come gli altri, alla deriva, nell’oscurità del cosmo.
Mi accinsi di nuovo a togliere la maschera e di nuovo mi fermai, allibito da ciò che vedevo. Il cavaliere spaziale aveva agganciato, con una fune, la mia astronave per trainarmi, a gran velocità verso la terra. In pochi attimi la raggiungemmo, per tuffarci in picchiata, penetrando nell’atmosfera. La luce ci avvolse in una lampo accecante e di colpo lo scenario cambiò.
Attorno a me si materializzò un ambiente che riconobbi subito: la grande sala interna del Palazzo della Ragione. Su tutto troneggiava la sagoma imponente del cavallo ligneo. Apparentemente non c’era nessuno. Cercai di muovermi e vidi che i comandi ora funzionavano perfettamente. Uscii nel loggiato e guardai sotto. Rimasi senza fiato dalla sorpresa. Chiunque fosse l’artefice di quella realtà virtuale, pensai, doveva essere davvero abile. Carrozze, cavalli, soldati e bancarelle. Un caleidoscopio di gente e animali di quella che doveva essere la Padova di almeno due secoli fa.
- Maran!
Qualcuno dall’interno mi aveva chiamato. Mi girai, varcai la porta finestra e, una volta rientrato, mi trovai di fronte nientemeno che a Giuseppe Garibaldi. Sì proprio lui, il grande condottiero vestito con la famosa camicia rossa e i calzoni azzurri, sui quali si appoggiava una lunga spada.
- Chi sei? Come mi hai portato qui?
- Sono l’eroe dei due mondi, quello reale e quello virtuale, anche se ultimamente, a dir la verità, frequento solo quest’ultimo. Per farmi riconoscere, Maran, ti mostrerò la mia vera faccia, guarda.
- Per la miseria, - dissi – non posso credere che sia tu. Dunque sei vivo.
- Certo che sono vivo, - rispose, - non ve ne siete accorti l’anno scorso, quando ho fatto schiattare i phone di mezza Europa?
- Già, - ripresi io, - è vero, ma molti dubitavano che fossi tu. Ritenevano impossibile che un uomo solo potesse fare una cosa del genere. Ma perché lo hai fatto?
- Bè, qualcosa si era rotto dentro di me. Si può dire così. In quel periodo se avessi potuto dare fuoco al mondo, l’avrei fatto. Ora le cose sono migliorate. Ho ritrovato un certo equilibrio.
- Mi fa piacere sentirlo. Che è successo prima?
- Non sono sicuro Maran, credo fosse un virus. Molto potente. Stava per installarsi nel sistema del gioco. Forse l’esplosione della nova avrebbe potuto causarti dei danni alla vista se non riuscivi a staccarti in tempo. A te come agli altri.
- Meno male che lo hai distrutto.
- Non proprio. Per ora l’ho soltanto ricacciato da dove è venuto.
- Come sapevi che ero qui?
- Non lo sapevo. Ti ho tracciato non appena ti sei collegato in rete. In realtà volevo incontrarti. Non potevo immaginare l’attacco hacker. Avrei una cosa per te.
- Ah sì? Quale?
- Bè, come ricorderai, tu mi salvasti la vita. Quando ci fu quell’orribile vicenda, in facoltà, ci mancò veramente poco che finissi in gattabuia per sempre. Vorrei provare a ricambiare il favore, per quel che posso. Ti farò pervenire un codice, costituito da una sequenza di lettere e numeri, con il quale mi potrai raggiungere da qualsiasi piattaforma virtuale. Se ti dovesse servire il mio aiuto, potrai contare su di me. L’importante è che nessuno sappia quel codice e quando dico nessuno, intendo proprio nessuno. Arrivederci Maran!
Se ne andò e io chiusi la connessione. Mi liberai di tutti gli apparecchi e uscii di casa per fare una passeggiata. Ne avevo bisogno. Camminando, ripensai all’incontro con l’uomo che adesso si faceva chiamare Garibaldi. Era stato un matematico geniale al Bo. Una mente tanto prodigiosa, quanto fragile. Il nostro incontro risaliva proprio al tempo della sua misteriosa sparizione, quando l’università fu sconvolta per un terribile omicidio di cui fu ingiustamente accusato. Condussi io le indagini e scoprii il vero colpevole, così lo salvai da una possibile condanna a vita. La vicenda però lo colpì duramente e minò il suo precario equilibrio. Scomparve senza lasciare tracce e tutte le ricerche successive furono vane. Dopo tre anni, riemerse dall’oblio, rivendicando la creazione del bug che mandò in tilt, per diverse ore, i phone di milioni di europei.
Dunque si era rifatto vivo e mi aveva offerto la sua collaborazione. La cosa appariva interessante: nel mio lavoro di poliziotto e investigatore prima o poi, ne ero sicuro, mi sarebbe stato molto utile.
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Non son cose da te'
di Matteo Fraccaro
-Mia cara!-esclamò con enfasi teatrale la signora Westward, non appena l’ottantaseienne Eudora Milkins ebbe fatto la sua comparsa sulla soglia del salottino da tè.
-Buon pomeriggio, Vivienne cara.- le rispose prontamente l’anziana, iniziando ad avanzare a passo malfermo verso il lungo divano in velluto malva dinnanzi a cui l’amica la stava aspettando a braccia aperte.
Le due si scambiarono i soliti bacetti affettati, stringendosi entrambe le mani ma senza nemmeno sfiorarsi le guance, e si sorrisero amabilmente.
-Prego, accomodati pure, cara.- proseguì radiosa la padrona di casa- Ti vedo alquanto affaticata quest’oggi. Sei sicura di sentirti bene?-
La signora Milkins si lasciò affondare delicatamente nel morbido rigonfiamento del divano e trasse un profondo sospiro di rilassamento. Si portò una mano alla camicetta color crema, all’altezza del cuore, e socchiuse gli occhi.
-In effetti in questi ultimi giorni ho il respiro più corto del solito.- disse, placida-Forse è un segnale che il grande momento sta arrivando anche per me.-
Quando riaprì i suoi piccoli occhi verdi, infossati fra le rughe profonde degli zigomi scheletrici, indirizzò le pupille in direzione dell’amica. Un sorriso malizioso le si dipinse in volto.
-Ma dimmi di te piuttosto, cara Vivienne: ti trovo in splendida forma!-
La padrona di casa si sedette all’altro capo del divano. Un sorriso fiammante arcuò le sue labbra rosse, carnose e sensuali.
-Lo credo bene, Eudora cara. Dopotutto fra meno di un mese compirò....dunque, vediamo: ventisei anni?-
Entrambe scoppiarono a ridere di gusto. Tanto che la signora Milkins cominciò a tossire.
-Oh, perdonami.- mormorò Vivienne Westward, alquanto disgustata da quel suono brusco e catarrale-Ti faccio subito portare qualcosa da bere.-
L’anziana signora Milkins trattenne il fiato e si ricompose.
-No, no. Perdonami tu, Vivienne.- ansimò, con un filo di voce- Era da tempo che non ridevo così. E’ evidente che non ci sono più abituata.-
-Oh, ci si riabitua molto in fretta dopo, credimi. A questo e a molte altre cose.- le sussurrò la padrona di casa con fare vezzoso, dopodiché si rivolse alla porta che dava sull’anticamera.
-Consuelo!-chiamò a gran voce.
Una giovane cameriera ispanica fece subito capolino dal corridoio.
-Servi il tè, per cortesia.- incalzò la signora Westward, prima ancora che la ragazza potesse aprir bocca o metter piede nel salottino.
-Ma non aspettiamo anche Molly Hu?- le chiese la signora Milkins, aggiustandosi le maniche della camicetta per nascondere i polsi rachitici.
Del tutto inaspettatamente la sua domanda cadde nel vuoto, rimanendo priva di risposta. Eudora distolse subito le sue attenzioni dai propri polsini e vide che Vivienne stava fissando con sguardo perso il salottino dinnanzi a sé, pieno di pizzi, di marmi policromi e di cristalleria costosa.
-Vivienne?-
La padrona di casa si scosse, riacquistò il suo sorriso di facciata, passò una mano sull’acconciatura per controllare che fosse ancora tutto a posto e si rivolse di nuovo alla sua anziana visitatrice.
-Sì, cara?-
-Ti vedo pensierosa. Qualcosa ti turba, forse?-
-Oh no. Nient’affatto. Stavo solo pensando, ecco… Alla grande notizia di questi giorni.-
-Notizia? Che genere di notizia?-
-Beh.- tentennò, quasi con imbarazzo –Quello che è successo a Lemuel Plummet due notti fa.-
La signora Milkins sgranò gli occhi.
-Riguardo a cosa, scusa?-
-Ma all’incidente, ovvio! Ti immagini cosa sarebbe successo se non ci fosse stato il Trattamento di Preservazione? A quest’ ora lui sarebbe….-
S’interruppe, rendendosi conto di colpo della sconvenienza di quanto stava per dire.
-Ma che vado a pensare! Meglio lasciar stare questi discorsi lugubri.-
L’anziana assentì con un deciso cenno del capo.
-Sono pienamente d’accordo, Vivienne. Non sono certo discorsi da tè, questi. Ma prima di cambiare del tutto argomento: tu e tuo marito parteciperete al suo Funeral Party al Teco?-
-Ma naturalmente! Io e Eugenides siamo amici di lunga data di Lemuel e Jennipher. E poi, a dirla tutta, non sto più nella pelle all’idea di rivederlo in una simile circostanza. Innanzitutto voglio chiedergli come si è sentito dopo la Trasfusione. E poi vorrei tanto sapere qualcosa di nuovo su quel testo teatrale a cui stava lavorando, quello su Oliver Cromwell… o era Pol Pot forse…non ricordo molto bene. Dora Warrens non fa che ripetere che si tratta di un copione che rivoluzionerà il genere!-
-Staremo a vedere. Ma ho la brutta sensazione che al Funeral Party, ritrovandosi al centro dell’attenzione di tutti, il nostro caro vecchio Lemuel potrà dedicarci solo pochissimo tempo.- sospirò la signora Milkins rabbuiandosi-Ma il vero problema, mia cara, è che la cerimonia è dopodomani sera…ed io non ho ancora l’abito giusto per l’occasione. Dico, che figura ci farei? Non si tratta certo di un Funeral Party qualsiasi. Stiamo parlando di Plummet! Lemuel Plummet in persona! Uno fra i più grandi scrittori al mondo.-
La signora Westward proruppe in una sonora risata.
-Per questo dovresti proprio chiedere a Molly Hu! Lo sai che lei è molto più esperta di me, in materia di abiti da cerimonia, di Funeral Parties…e dello stesso Lemuel Plummet.-
-Hai ragione, Vivienne cara.- sospirò l’anziana signora Milkins -Anche se, a ripensarci bene, non è che sia poi così importante, dopotutto.-
-Come sarebbe a dire?-
-Beh. In fin dei conti, quando saremo assieme, tu ed io, tutti non avranno occhi che per te. Sarà un po’ come tornare al college. Te li ricordi, quei bei vecchi tempi? Dio! Sei bella come lo eri allora.-
La giovane padrona di casa sorrise con accondiscendenza alla vecchia che le stava seduta accanto. Per quanto a parole avrebbe dovuto contraddirla bonariamente, seguendo le regole impostele dall’etichetta, in cuor suo sapeva benissimo che sarebbe andata esattamente così e la sua insaziabile vanità, anche se solo per un istante, si beò in un orgasmo di infinito piacere.
Il campanello suonò all’improvviso.
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L’alchimista
di Teresa Regna
L’uomo procedeva adagio, inoltrandosi lungo il sentiero che conduceva all’amba, dalla parte opposta del villaggio, senza alcuna fretta. Il vento impetuoso, proveniente dal deserto, faceva svolazzare la tunica candida, mentre la sabbia che mulinava intorno a lui penetrava fin dentro il burnus.
Efraim, per nulla infastidito dal vento, si fermò per un attimo, passò la mano libera sugli occhi socchiusi, per liberarli dai granelli di sabbia che minacciavano di accecarlo, poi riprese il cammino interrotto.
Appeso al braccio destro portava un cesto, piuttosto grosso, contenente ciò che gli occorreva per portare a termine il compito che si era prefisso. Gli strumenti che aveva avvolto in un panno pulito affinché non si deteriorassero, perdendo parte dei loro poteri, avevano un peso irrisorio ma un immenso valore.
Giunto in prossimità della caverna che costituiva la sua meta, proseguì con cautela, tentando di rimanere sottovento. Se la preda avesse fiutato il suo odore sarebbe stato in pericolo di vita.
Sorrise tra sé: gli sembrava di sentire ancora le raccomandazioni che Betheda gli aveva indirizzato quando era uscito, quella mattina. – Sta’ attento, dovunque tu sia diretto. Desidero che torni a casa sano e salvo. La moglie non era una gran bellezza, ma la amava immensamente, e ne era ricambiato.
Efraim afferrò, a colpo sicuro, la fiala contenente il veleno. Per precauzione, ne aveva preparato una dose tripla di quella che gli sarebbe stata sufficiente. La tenne con la sinistra, lontano dal corpo per non esserne contaminato, e si avvicinò all’imboccatura della caverna. Abbandonato il comportamento circospetto, si mosse in fretta, supportato dalla determinazione che era parte del suo carattere.
Gettò la fiala con il veleno oltre la grossa apertura naturale, e attese che producesse i suoi effetti nefasti. Una fiamma esile serpeggiò sul terreno pietroso, poi si estinse.
– Il drago è morto – disse l’uomo, ad alta voce, quasi ad esorcizzare il pericolo che aveva corso.
La caverna, pur essendo molto ampia, pareva quasi rimpicciolita dal corpo di dimensioni gigantesche, ormai senza vita, che vi giaceva disteso. Il drago era verde brillate, con le ali rossastre, e le unghie gialle, snudate ad artigliare il terreno pietroso in un ultimo spasimo prima della fine.
Estratto il coltello affilato, Efraim si accinse a portare al termine il suo compito. Scalò le zampe per arrivare alla testa, e incise la carne con un taglio netto. La draconia era lì, immersa nel grigiore del cervello, e splendeva come un immenso rubino.
Discese fino a toccare di nuovo il pavimento della caverna, tenendola in mano come una reliquia, la poggiò a terra ed estrasse dal cesto l’ampolla contenente la sua arma più potente. Non l’aveva usata prima per non rischiare di danneggiare la draconia, ma ora intendeva far sparire le prove dell’uccisione del drago.
Versò sul cadavere l’intero contenuto dell’ampolla, e osservò per pochi attimi il fumo azzurro che da esso si sprigionava. Avrebbe voluto rimanere ad assistere alla dissoluzione del drago, ma un’ombra si profilò sul terreno sabbioso, appena oltre l’imboccatura della caverna. Qualcuno lo stava osservando.
Richiuse l’ampolla, la posò nel cestino, e avvolse in tutta fretta la draconia nel panno che aveva portato con sé, adagiandola accanto agli strumenti da alchimista. Voleva evitare che si venisse a sapere, al villaggio, che aveva ucciso un drago e preso la sua draconia, per cui corse fuori come il vento e imboccò il sentiero che costeggiava l’amba.
Non si era accorto che, al di sotto del corpo del drago, che si stava dissolvendo a poco a poco, si intravvedevano tre uova.
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Ufo a Casa Robinson
di Salvatore Di Sante
Castello dei Robinson, Tenuta di Greenwood, nei pressi di Londra, anno 1730
Jake alzò gli occhi dal tomo polveroso, annusando l'aria che con una folata aveva fatto irruzione nella monumentale biblioteca. I suoi sensi si acuirono all'unisono, in allerta. Nello stesso istante la moglie Eva spalancò la porta folgorandolo con un'occhiata carica di apprensione. Si scambiarono un cenno d'intesa e uscirono in giardino. Il cielo era sgombro, il sole splendeva alto e una brezza delicata accarezzava le chiome degli ontani e delle querce.
- Lassù! - gridò a un tratto Jake, mentre la trasformazione esasperava il prognatismo in un mostruoso fiorire di zanne e artigli.
Un velivolo di forma ovoidale, d'argento splendente, calò in un baleno emettendo appena un leggero ronzio.
Le pupille di Jake si contrassero per mettere a fuoco la minaccia incombente, le iridi gialle erano iniettate di sangue.
Anche sua moglie aveva assunto fattezze ferine e ringhiava sommessamente. Ai lati dell'oggetto volante spuntarono due piedistalli e il disco si posò sull'erba con uno sbuffo di vapore biancastro.
Un'apertura rettangolare comparve sibilando e uno scivolo d'acciaio si compose pezzo per pezzo fino a toccare terra.
I due licantropi erano carichi di tensione, i muscoli guizzanti e la pelliccia crepitante di cariche statiche. Due imponenti figure blu si stagliarono nel vano del portello.
Jake ed Eva si abbassarono leggermente, caricando la spinta sulle zampe posteriori, le narici sbuffanti e gli artigli pronti a lacerare. Man mano che i misteriosi visitatori scendevano lungo la rampa Jake riconosceva un che di familiare.
- Che razza di mostri sono mai questi?! - pensò Eva. - Sembrano degli enormi gorilla con la testa d'elefante ma la pelle è squamosa e hanno quattro braccia e quattro gambe...
Il più alto dei due premette un bottone sul collare dell'armatura e iniziò a parlare. Indossava un mantello rosso contornato di pelliccia e una corona incastonata di gemme.
Jake era tornato rapidamente alle sembianze umane. Questo tranquillizzò Eva che fece lo stesso.
- Salute a voi Terrestri, mi esprimerò nella vostra lingua. Sono Axior, sovrano di Aireon, e questi è la mia guardia del corpo, Valior. Vengo per conto del capitano Liar e del tenente Sennar. Mi risulta che li abbiate conosciuti.
Eva guardò Jake che annuì col capo. - Durante la Caccia, - le bisbigliò.
- Non me l'avevi mai detto... - brontolò la moglie.
- Abbiamo combattuto assieme, maestà. Sono stati degli eroi. Purtroppo non ce l'hanno fatta, - esclamò Jake.
- Lo so. Ho visto tutto collegandomi alla loro astronave: il sistema di monitoraggio era rimasta intatto nonostante lo schianto. Anche voi, signor Robinson, vi siete battuto valorosamente. Le videocamere hanno ripreso tutto ciò che accadde su quell'isola. Avete aiutato e sostenuto i miei due sudditi con tutte le forze, fino all'ultimo. E per questo voglio ricompensarvi. Accettate, vi prego, oltre alla più piena gratitudine, mia e del mio popolo, questo omaggio.
Fece un cenno a Valior che consegnò con disinvoltura a Jake un blocco di un metro per due. Al sole rifletteva un bagliore accecante e pesava talmente tanto che se il pirata non fosse stato un licantropo sarebbe sprofondato fino alla cintola nel terriccio del giardino.
- So che questo metallo sul vostro pianeta è considerato molto prezioso. Su Aireon ne abbiamo in quantità e non ce ne facciamo nulla. Da voi è chiamato... «oro», dico bene? La pronuncia è corretta?
- Dite bene, eccome se dite bene, maestà! - esultò Jake con gli occhi che luccicavano più di quel tesoro. - Ti rendi conto, moglie mia? E' più di quanto abbia messo insieme in una vita intera da filibustiere!
L'ultimo saluto
di Salvatore di Sante
Reame di Geamar
Non aveva più nessun parente che potesse partecipare, ma in compenso c'erano tutti, gli alunni della sua classe.
Centosettantadue anni non erano pochi, nemmeno per uno stregone del suo rango. Se n'era andato coi colori della primavera, la stessa stagione che l'aveva messo al mondo e che gli aveva infuso la dolcezza delle sue brezze. Stormi di Pterfoi solcavano il cielo terso e sembravano volergli rendere omaggio con le loro grida. Jacob questa volta non si lasciò distrarre dai possenti sauri, come spesso accadeva durante le lezioni; il troll continuò assorto a scavare la buca, svettando con la sua mole sul gruppo dei presenti.
Aveva chiesto di essere seppellito accanto alla moglie Sandra, sotto una quercia poco distante dalla loro casetta. L'aveva piantata lui stesso, quella quercia. - Una vita accompagna una vita; una vita veglierà su un'altra che si spegne... - era solito dire.
Thearyn chiuse gli occhi per stabilire un contatto.
In quel momento, alla tenuta di Greenwood, nell'anno 1761...
La famiglia era riunita a tavola e la conversazione filava sull'onda del buonumore. L'abbondante stufato e l'amabile vino rosso lusingavano lo stomaco e scioglievano la lingua. D'un tratto Katherine si irrigidì e rimase come paralizzata, con un'espressione spaesata sul volto.
- Che hai Kat? - esclamarono con apprensione Jake ed Eva, all'unisono. - Stai male figliola?
La piccola Maddy, con un groppo in gola, osservava la mamma bloccata in quella posa innaturale.
Per fortuna durò solo qualche istante. - Thearyn ci chiede di andare, - annunciò Katherine come risvegliandosi di colpo da uno stato ipnotico. - Hoguar. - Fece una pausa. - E' morto.
Jake sentì il suo cuore saltare un battito. I muscoli di tutto il corpo si sciolsero come il getto di una cascata a strapiombo; perse la presa e il bicchiere rotolò sul tavolo spargendo il liquore.
Eva sgranò gli occhi e deglutì. Provò a dire qualcosa. Le parole si arrampicavano per la gola ma evaporavano appena oltre le labbra.
Sapevano però cosa dovevano fare. Si presero tutti per mano, includendo nella catena anche la piccola Maddy: non poteva rimanere sola, nonostante le circostanze fossero poco adatte a una bambina.
Reame di Geamar, qualche istante dopo...
- Alportas ilin tie kun ni(1) - Thearyn sussurrò la formula e la famiglia Robinson al completo si materializzò a pochi passi dal gruppo. Subito un mormorio cominciò a serpeggiare tra gli ex-alunni di Hoguar: - Allora è lui... il pirata licantropo... Thearyn era con loro... le donne chi saranno? Boh... una la moglie, l'altra la figlia magari... e la bimba?
Quando Maddy guardò quelle persone, per l'emozione venne investita da un turbine di pensieri e stralci di visioni. Spaventata artigliò la gamba di Katherine, mentre scene convulse le si accalcavano davanti agli occhi, incorporee, come sospese nella nebbia.
- Va tutto bene, non preoccuparti. Calmati e respira a fondo, - la rassicurò la mamma che aveva intuito la situazione. - Controlla il flusso...
Jake salutò gli astanti con un gesto che li abbracciava tutti e presentò brevemente la moglie Eva, la figlia Katherine e la nipote Maddy. Si avvicinò al vecchio amico adagiato su un letto di rose e foglie. Si inginocchiò e gli prese la mano. Hoguar sembrava sereno, pervaso dalla sua solita, calma saggezza.
Jacob aveva terminato e attendeva appoggiato alla vanga, asciugandosi la fronte con la manica della camicia. Una lacrima scese lentamente fra la barba del vecchio pirata, ormai persino più bianca di quella di Hoguar. Infine Jake si alzò e si diede un contegno. Tutti i presenti, Thearyn in testa, aspettavano le sue parole.
- Ciao, amico mio, - iniziò Jake. - Adesso riposi beato all'ombra di questa quercia, che ti custodirà in eterno. Ma proprio come questa quercia veglia ora sulla tua vita, tanti anni fa tu vegliasti sulla mia. Combattesti al mio fianco. Tu e Thearyn mi avete salvato. Grazie a voi ho potuto farmi una famiglia. - Eva e Katherine rimasero serie, la piccola Maddy sorrise. - Ci siamo conosciuti in circostanze tragiche, - riprese - ma da allora è nata una grandissima, fantastica amicizia. Ciao, coraggioso, leale e saggio amico mio. Un giorno ci ritroveremo...
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(1) In lingua esperanto significa «Portali qui da noi».