Text Trailers
In punizione!
di Salvatore Di Sante
Katherine sorseggiava il tè appoggiata alla finestra, con una coperta leggera sulle spalle. Il sole che si spandeva placido sul mare di spighe animava onde di riverberi. Adorava ritagliarsi quella piccola parentesi di quotidiana beatitudine. D'un tratto un movimento colto con la coda dell'occhio la distolse dall'idillio. Si voltò leggermente e scorse una donna che risaliva il viottolo tenendo per mano una bambina. Quando si furono avvicinate abbastanza riconobbe la signorina Allison, l'insegnante di sua figlia, che stava strattonando, più che accompagnando, proprio sua figlia Maddy, per l'appunto.
Posò in fretta la tazza e si preparò a riceverle sulla veranda.
La signorina Allison si fermò ansimante, piantandole addosso un'occhiata accusatrice.
Maddy sollevò un istante lo sguardo per cercare conforto in quello della madre. La piccola aveva le labbra tese a fessura, gli occhi roventi e il visino corrucciato.
- Salve signora Robinson. - Disse la maestra spolverandosi la gonna, come se salutare la infastidisse data la gravità della situazione.
- Cosa è successo? - chiese Katherine senza ricambiare di proposito il saluto.
- Sua figlia si è meritata un'altra punizione. Ha rovesciato il calamaio in faccia a un compagno, - sentenziò come se dovesse attribuire la pena capitale.
- E cosa le aveva fatto quel bambino?
- Mi aveva preso in giro su papà... - sbottò Maddy fissando la mamma con aria supplichevole.
- Avevo appena assegnato il compito ed ero voltata a scrivere sulla lavagna. Non mi risulta nessuna presa in giro. Ho sentito un rumore, mi sono girata e Jeremy era tutto sporco d'inchiostro. Piangeva indicando Maddy e chiamandola «cattiva». Le rammento inoltre che il mese scorso sua figlia ha rotto un braccio a Peter, se lo ricorda? Per oggi la sospendo dalle lezioni e mi auguro, signora Robinson, che vorrà sfruttare il pomeriggio per insegnarle un po' di educazione e di buone maniere. - Girò i tacchi e calpestando furiosamente la ghiaia marciò in direzione del vecchio granaio che fungeva da aula scolastica.
Katherine prese amorevolmente per mano la figlia e la condusse in casa.
- Siediti e raccontami com'è andata, - le sussurrò. - Voglio sentire anche la tua versione. Zitella-Allison non mi sta troppo simpatica, - sorrise.
Il viso di Maddy si sciolse e si accese.
- Ci aveva dato un tema sul papà, - disse. - «Parlami di tuo papà». Ci sono rimasta male, mi veniva da piangere, - continuò con gli occhi lucidi. Katherine le prese di nuovo la mano e la piccola ricacciò indietro le lacrime, sforzandosi di continuare. - La signorina Allison se n'è accorta e mi ha detto che potevo farlo su di te, su mia mamma...
- Capisco, - annuì Katherine in tono grave.
- Ma quando la maestra si è voltata a scrivere il titolo alla lavagna, Jeremy da dietro mi ha detto che sono una bastarda e che tu sei una donnaccia. - Una lacrima scese piano a solcarle la guancia. - Peter poi aveva cominciato lui. Mi ha dato un pugno, in faccia eh! Io gliel'ho ridato sul braccio, anche piano...
Katherine chiuse gli occhi, concentrandosi. La scena le apparve nitida come se le si svolgesse davanti in quel momento: i capelli di Maddy che si gonfiavano, il banco che cominciava a tremare; infine il calamaio di Jeremy che esplodeva impiastricciandolo d'inchiostro.
- Noi siamo diversi, Maddy. Lo sai. - Disse Katherine in tono calmo, riaprendo gli occhi. - Jeremy si è comportato male. Non doveva dirti quelle cose. Cosa ti ho insegnato? Bisogna sempre rispettare il prossimo, no?
Maddy annuì abbacchiata, tirando su col naso.
- Non ascoltare gli stupidi o le persone cattive. Lasciali dire. Che t'importa cosa pensano di noi? Stiamo tanto bene io e te, vero?
- Sì mamma, - sorrise Maddy.
- Stai attenta coi tuoi poteri. Non farli vedere, tienili nascosti. Ancora non li controlli molto bene, ma col tempo ti abituerai. Io alla tua età non ero così svelta, - le sussurrò carezzandole i capelli.
- Ma tu mamma mi hai raccontato che da piccola hai combattuto... hai usato i poteri. Per salvare il nonno da Kasurotto...
- Kasumoto, - esclamò Katherine lasciandosi sfuggire una risata. - Era diverso, - spiegò poi tornando seria. - Ero stata costretta e ne andava della vita mia e del nonno.
Ciao, Jake!
di Salvatore Di Sante
Il vecchio bimotore rollava come se i bulloni dovessero staccarsi da un momento all'altro. Le eliche solcavano il cielo con fracasso d'inferno; a Giulio sembrò quasi una mancanza di rispetto verso quell'incantevole panorama. D'altronde era Marco l'appassionato e l'esperto di aerei (e di motori in genere).
- Ehi, - aveva esclamato una mattina entrando come una furia nella falegnameria. - Ma tu lo sai quanto vive un licantropo?
Bella domanda. In effetti... Giulio arrestò la sega circolare con un'espressione perplessa dietro gli occhiali protettivi.
Il suo amico nonché socio aveva ragione. Jake era indietro di quasi 300 anni ma forse era ancora vivo: loro erano sempre pervasi da un vigore insolito e prepotente, in ogni momento della giornata. Una vitalità strabordante li accompagnava ovunque: nel lavoro, nei passatempi, negli sport, in ogni cosa che facevano, come un sottofondo costante.
Avevano quindi deciso, sulle ali delle ferie d'agosto, dell'entusiasmo e di quel Cessna decrepito (cui Marco si era dedicato negli ultimi cinque anni come un alchimista con la ricerca della pietra filosofale), di far rotta verso l'Isola della Scimmia.
***
- Cavolo, adesso dove atterriamo? - sbottò Marco urlando a squarciagola nel tentativo di sovrastare i motori.
Be' certo, l'isola era molto cambiata dal 1724, dai tempi della Caccia. Schiere di scintillanti alberghi tutti vetro e acciaio avevano rimpiazzato anche l'ultimo sbuffo di verde e marciavano fin quasi alla battigia. Una farinosa lingua beige pinticchiata di bagnanti brulicanti si perdeva sconsolatamente nella risacca turchina; il mare era forse l'unica cosa rimasta come allora.
Ammararono a un centinaio di metri dalla costa, soluzione decisamente poco ortodossa ma obbligata. Fossero stati in elicottero si sarebbero beatamente posati sulla terrazza di un albergo, incuranti delle ire del proprietario, di una mezza dozzina di suoi inservienti e dei poliziotti accorsi subito dietro. Almeno il loro, anche se un «catorcio volante» (così lo chiamava Giulio, Marco l'aveva preso per due soldi da un amico che voleva donarlo a un museo aeronautico), era un «idro»volante, con due provvidenziali galleggianti. Marco calò l'ancora (altra stravagante soluzione tutta sua, l'aveva rubata da una petroliera in disuso) e nuotarono senza fretta fino alla spiaggia. Si fecero strada fra gli sguardi attoniti dei turisti e le risatine dei bambini che li additavano, puntando il gabbiotto in legno di un Centro Informazioni che ammiccava come un miraggio nel deserto. L'avvenente receptionist li accolse con un sorriso ampio quasi come la scollatura, dissimulando molto professionalmente la sorpresa e l'istintiva diffidenza.
- Salve, vorremmo informazioni sulla leggenda di Jake Robinson. Era di queste parti, vero? - chiese Giulio in tono compassato. Aveva studiato bene la parte e Marco lo osservava con scherzosa ammirazione.
- Esatto, signore. Cosa vuole sapere in particolare?
- Abbiamo trovato su internet che si è sposato e vorremmo sapere dove si era stabilito con sua moglie... - Marco continuava a rivolgergli sorrisetti compiaciuti.
- Il pirata Jake Robinson sposò una nobildonna inglese, Eva Sparrow, da cui ebbe una figlia, - rispose Silvia (così recitava la targhetta appuntata sul décolleté).
Katherine..., pensò Giulio ricordando la foto che avevano scovato in rete.
- I coniugi Robinson vissero nella tenuta di Greenwood, vicino Londra, fino alla fine dei loro giorni, - continuò Silvia porgendo loro un dettagliato opuscolo. - Ecco, qui trovate tutto: vita, morte e miracoli di Jake Robinson, - concluse conciliante.
- Morte speriamo di no, - sussurrò Marco. Silvia lo guardò interdetta e Giulio gli diede una gomitata. - Grazie mille signorina, - disse sbrigativamente tirandosi dietro l'amico.
- Ancora una cosa signori: se lo desiderate è possibile visitare il castello, nella tenuta. Ci vivono due vecchietti, loro discendenti a quanto sembra.
- Seee... discendenti..., - mugugnò Marco. E altra gomitata di Giulio che questa volta riuscì a portarlo via definitivamente.
Tenuta di Greenwood, nei pressi di Londra, agosto 2014
- Ehiii Jaaake...!
Il vecchio abbassò la scure e riparandosi dal sole con la mano scrutò i due pazzoidi che si sgolavano e si dimenavano a cavalcioni di quel trabiccolo volante.
Giulio e Marco fecero tre o quattro passaggi radenti, sempre gridando e sbracciandosi.
Alla fine l'anziano pirata realizzò. - Ciaaaooo ragaaazziii! - urlò lasciando cadere l'accetta.
- Eva! Vieni a vedere chi c'è! - Una graziosa vecchina raggiunse il marito lì sul prato, accanto alla catasta di legna.
Vista la splendida giornata Jake decise di stendere una coperta all'ombra di una quercia. Trascorsero tutto il pomeriggio a parlare: ricordarono la tremenda esperienza che li aveva fatti incontrare, Giulio e Marco fecero la conoscenza di Eva e tutti e quattro raccontarono a briglia sciolta delle loro vite.
- E così vi siete messi in società e avete aperto una falegnameria... - fece Jake.
- Sì, «Legno dall'altro mondo». Coltiviamo e vendiamo la grinolia dei poveri Liar e Sennar, - rispose Giulio. Al pensiero dei due alieni si rabbuiarono un attimo ma poi la conversazione riprese col solito entusiasmo. Scorrevano fiumi, di parole e di birra fresca.
- Vivete qui da soli? - domandò a un certo punto Marco.
Jake ed Eva si scambiarono un'occhiata. - Venite, - disse infine il vecchio pirata alzandosi ed invitandoli a seguirlo.
Rientrarono tutti nel castello e fiaccole alla mano scesero in silenzio una ripida scalinata ricavata nella pietra grezza. Giunsero a una porticina di legno il cui chiavistello era bloccato da un lucchetto. Jake estrasse dal panciotto la chiave e introdusse Giulio e Marco nell'angusta grotta. Lui e sua moglie Eva attendevano sulla soglia. Un debole fascio di luce filtrava da una finestrella circolare, a rischiarare un piccolo altare con alcune candele, spente al momento, e due ritratti a carboncino. Due donne, una morta nel 1801, l'altra nel 1830. Sorridevano serene.
- Nostra figlia Katherine e nostra nipote Maddy, - spiegò Jake. - Hanno vissuto quanto un normale essere umano, - rivolse un tenero sguardo alla moglie - non si trasformavano, avevano poteri differenti dai nostri...
http://www.wizardsandblackholes.it/?q=isignoridellacaccia
http://www.wizardsandblackholes.it/?q=lafigliadelpirata
La morte dal cielo
di Simone Scala
Nei dintorni del villaggio di Ayrshire, Territori Occidentali, inverno
I due troll che trainavano la torre d’assedio non sentivano ragione. All’improvviso gambe piantate in mezzo alla sterrata ghiacciata, non volevano proseguire. Fra la neve che scendeva copiosa e il vento pungente, quegli esseri imponenti fiutavano l’aria come in attesa di qualcosa, sbuffavano e si lamentavano. Il centurione Kotan allora aveva ordinato ai soldati di picchiarli coi bastoni, di frustarli con le cinte di cuoio ma inutilmente. Le creature deformi dalle braccia sproporzionate non si muovevano, non c’era proprio verso di riprendere il cammino per Ayrshire. Kotan, imbestialito per quell’inutile perdita di tempo, diede l’ordine di smettere poi si mise a camminare avanti e indietro lungo tutta la piccola colonna militare. Dava ordini e insultava chiunque gli capitasse a tiro. Perché non bastava quella rogna dello spostamento della torre, pensava il centurione, adesso ci si mettevano pure i troll a creare problemi. E lui aveva fame, era stanco, aveva voglia di caldo, di vino e al villaggio non mancava ormai molto. Fra poco inoltre sarebbe calato il buio e non era una buona idea restarsene lì, su quella strada di merda piena di buche fredda più di una tomba.
«Forse sono spaventati, mio signore» si sentì dire da un fante alto e smilzo che stava vicino a un carro.
«E tu che ne sai?» lo apostrofò il centurione, in malo modo.
«Vengo dalle Montagne Appuntite, mio signore, li conosco bene i troll.»
«Mi stupisco che ci siano ancora degli orchi in quella fogna» Kotan si fece più vicino al fante e lo guardò diritto negli occhi, «e dimmi, esperto di troll, di cosa avrebbero paura questi stupidi bestioni?»
«Nemici signore, probabilmente qualcuno di loro è ancora nei paraggi» rispose il fante, deciso.
«Questo è impossibile!» tuonò Kotan, «li abbiamo spazzati via, li abbiamo annientati, l’esercito degli uomini è in rotta, non esiste più.»
Fu in quel momento che si udirono dei suoni secchi, metallici. I troll avevano appena spezzato le catene che li legavano alla torre e scappavano. Kotan preso completamente alla sprovvista, non sapeva come gestire la situazione visto che era del tutto inconsueta. Di solito, infatti, i troll erano schiavi affidabili e remissivi che non creavano grane, adesso invece era un casino. Un casino assurdo difficilmente spiegabile di fronte ai suoi superiori. Niente troll, niente torre d’assedio da riparare ad Ayrshire. Era un fatto. Perciò superata l’incertezza iniziale, il centurione liquidò il fante e ordinò a gran voce a una decina di cavalcalupi di inseguire i troll e di fermarli a qualsiasi costo. Ne spedì poi altri tre a dare un’occhiata in giro perché non si poteva mai sapere. Magari c’era davvero qualche soldato nemico che era meglio eliminare. Anche se lo strano comportamento dei troll - abituati da sempre alla battaglia - non poteva essere dettato solo dalla presenza di qualche disertore o sbandato. No. Lui li aveva osservati con attenzione prima di farli colpire e l’aveva vista, l’aveva vista bene, senza ombra di dubbio: paura. Paura folle di morire. Per mano forse di una forza che non apparteneva neppure agli orchi. Sì, era così, inutile girarci intorno, si rimproverò l’orco, i loro occhi, i loro occhi sgranati e stupidi guardavano verso l’alto, guardavano verso il cielo…
Kotan si sentì rabbrividire a quel pensiero, per cui decise di scacciarlo subito. Ordinò al manipolo di montare velocemente delle tende in un punto rialzato del terreno in prossimità della sterrata, e inviò due messaggeri ad Ayrshire per chiedere aiuto. Almeno aveva smesso di nevicare, si rallegrò il centurione. Una cosa buona finalmente, un po’ di fortuna, un nuovo inizio. Invece si sbagliava ma forse non se ne rese neppure conto.
Dal cielo. Come fulmini. All’improvviso. Come avevano intuito i troll.
Rosso. Giallo. Fuoco.
Tanto fuoco.
Ovunque sulla terra, rivoli incandescenti che scioglievano la neve, bruciavano la torre e arrostivano gli orchi.
Senza possibilità di scampo.
O di difesa.
La ninfa e il nano
di Simone Scala
Foresta pietrificata, poche leghe a sud delle Grandi Mura di Granito, Territori Occidentali, estate
E dire che Sen era giunto qui solo per rilassarsi, per camminare un po’ in santa pace e non pensare agli affari. Perché questo posto desolato gli piaceva. Gli era sempre piaciuto fin da piccolo, quando ci veniva con il nonno a cercare gli scorpioni. Vicino alla cittadella dei nani ma così diverso, così immobile e spettrale soprattutto di notte. Adesso invece era pomeriggio inoltrato e faceva caldo. Molto caldo. Adesso invece, dopo che l’aveva vista muoversi scalza fra gli arbusti di pietra bruciati dal sole, la sua mente era stata subito inghiottita dall’aspetto economico della vicenda. Una ninfa. Una ninfa di terra come non se ne vedevano da anni, almeno nei dintorni delle Grandi Mura. Giovane. Bella. Lunghi capelli lisci, viola come gli occhi, due eleganti ali da farfalla gialle che spuntavano da una veste bianca. Lei non lo aveva scorto e questo era un gran vantaggio, pensava il nano mentre la cercava come un segugio. Una fortuna. Quella creatura se venduta come schiava al mercato delle Grandi Mura poteva valere un mucchio di monete d’oro. C’erano infatti molti uomini ricchi che avrebbero di sicuro allargato la borsa per godere di una simile bellezza. Certo lui da solo non l’avrebbe mai catturata ma del resto non era quello il suo scopo in quel momento. Il nano, infatti, voleva solo individuare il suo nascondiglio. Poi avrebbe assoldato quattro o cinque mercenari e sarebbe ritornato a prenderla. Con le buone o con le cattive. Magari veniva fuori che non era sola, magari c’era un intero villaggio di ninfe che lo aspettava. E allora sì che i guadagni sarebbero schizzati alle stelle. Sen si fermò di colpo, toccandosi la barba grigia. In effetti era possibile, si augurò compiaciuto. Anche perché quella ninfa era troppo giovane per vivere da sola in un posto come quello. Però c’era un piccolo problema, rifletté il nano prendendo la bisaccia e bevendo qualche sorso di vino. Un problema piccolo piccolo, sorrise ironico: lei era sparita. Volata via. Ormai era da tanto che girava e non l’aveva più rivista, si rimproverò riprendendo il cammino. Per giunta il giorno declinava e sarebbe stato meglio rientrare alla cittadella. Aveva lasciato il pony nella stalla e ora se ne pentiva. Sciocchezza colossale e al diavolo la sua mania di camminare. Basta. Avrebbe percorso un’altra lega poi sarebbe ritornato indietro. Le gambe iniziavano a dolergli, era sudato fradicio e a casa lo aspettavano per cena. Tanto non avrebbe rinunciato, non era da lui. Nella peggiore delle ipotesi sarebbe tornato. Ma adesso uno sforzo, s’impose il nano, un ultimo sforzo là dove la foresta s’infittiva, dove i rami pietrificati non permettevano quasi di avanzare. Dove non c’erano più sterrate o sentieri, dove quasi nessuno si avventurava perché poteva essere rischioso. Così s’inerpicò su una salita che gli permetteva una visuale migliore stando bene attento a dove metteva i piedi. A un tratto, però, dovette fermarsi perché fu investito da una nube di fumo che gli tolse quasi il respiro. Qualcosa bruciava e produceva un odore acre. Fece per tornare indietro ma ci ripensò. Si voltò di scatto e salì sopra un albero. Una faticaccia della miseria ma alla fine arrivò in cima.
Fumo in un luogo come quello. Strano, pensò Sen, cosa significava?
Tenendosi ben stretto al tronco di pietra anche a causa del vento, il nano aguzzò la vista e rimase sorpreso. Un villaggio. Poco distante. In fiamme. E corpi in terra. Probabilmente morti. Uccisi. Corpi femminili ma il fumo non permetteva di esserne certi. Ninfe. Un villaggio di ninfe così vicino ma lui non l’aveva mai visto prima. Idiota. Perché ogni volta che era stato qui non aveva mai preso quella salita? Dandosi dello stupido il nano scese dall’albero e si avviò verso il villaggio. Lo raggiunse alle prime luci della sera, vide le fiamme che divoravano le case di legno, le ninfe uccise e il loro sangue blu che dissetava l’erba. Riconobbe anche la fanciulla dalle ali gialle che giaceva vicino a una fonte.
Aveva gli occhi aperti e una delle ali strappate.
Sterminate. Massacrate: giovani, vecchie e bambine in questa specie di oasi naturale incastonata fra un mare di pietra. Alcune avevano ferite da taglio mentre altre erano state trafitte da dardi e frecce. Niente faceva pensare a stupri o torture e non c’era neppure traccia di un saccheggio. Perciò i briganti che pure ogni tanto si rifugiavano nella foresta non c’entravano, anche perché la precisione dei colpi degli archi e delle balestre era troppo elevata per le modeste capacità di quegli zotici scapestrati. Una precisione così poteva appartenere solo all’esercito degli uomini che non aveva però motivo di prendersela con le ninfe; oltretutto molte di loro erano giovani, notò Sen muovendosi in mezzo ai cadaveri, potevano valere davvero un mucchio di soldi come schiave di piacere. No. Gli uomini erano innocenti. Ma allora chi? Chi era stato?
Il nano si bloccò d’istinto.
Sagome. Avanzavano fra il fumo nero. Silenziose. Non le aveva sentite. Stupido. Ancora stupido ma ormai era tardi. Avevano spade e asce sguainate. Pochi passi e lo avrebbero sventrato. La paura di morire arrivò improvvisa. Folle. Sciocco arrivare fin lì da solo. Ma cosa voleva fare? Era andato nella foresta per non pensare ai soldi e invece si ritrovava nella merda proprio a causa loro. E adesso sarebbe morto. Ucciso da uno dei guerrieri che gli erano davanti. Minacciosi. Ostili. Letali. Che già lo circondavano. Occhi rossi, canini grossi e sporgenti, terribili. Con il cuore in gola, Sen decise di seguire il suo intuito. Salutò in posa marziale gli orchi: braccia tese e pugni chiusi.
Foresta pietrificata, poche leghe a sud delle Grandi Mura di Granito, Territori Occidentali, estate
E dire che Sen era giunto qui solo per rilassarsi, per camminare un po’ in santa pace e non pensare agli affari. Perché questo posto desolato gli piaceva. Gli era sempre piaciuto fin da piccolo, quando ci veniva con il nonno a cercare gli scorpioni. Vicino alla cittadella dei nani ma così diverso, così immobile e spettrale soprattutto di notte. Adesso invece era pomeriggio inoltrato e faceva caldo. Molto caldo. Adesso invece, dopo che l’aveva vista muoversi scalza fra gli arbusti di pietra bruciati dal sole, la sua mente era stata subito inghiottita dall’aspetto economico della vicenda. Una ninfa. Una ninfa di terra come non se ne vedevano da anni, almeno nei dintorni delle Grandi Mura. Giovane. Bella. Lunghi capelli lisci, viola come gli occhi, due eleganti ali da farfalla gialle che spuntavano da una veste bianca. Lei non lo aveva scorto e questo era un gran vantaggio, pensava il nano mentre la cercava come un segugio. Una fortuna. Quella creatura se venduta come schiava al mercato delle Grandi Mura poteva valere un mucchio di monete d’oro. C’erano infatti molti uomini ricchi che avrebbero di sicuro allargato la borsa per godere di una simile bellezza. Certo lui da solo non l’avrebbe mai catturata ma del resto non era quello il suo scopo in quel momento. Il nano, infatti, voleva solo individuare il suo nascondiglio. Poi avrebbe assoldato quattro o cinque mercenari e sarebbe ritornato a prenderla. Con le buone o con le cattive. Magari veniva fuori che non era sola, magari c’era un intero villaggio di ninfe che lo aspettava. E allora sì che i guadagni sarebbero schizzati alle stelle. Sen si fermò di colpo, toccandosi la barba grigia. In effetti era possibile, si augurò compiaciuto. Anche perché quella ninfa era troppo giovane per vivere da sola in un posto come quello. Però c’era un piccolo problema, rifletté il nano prendendo la bisaccia e bevendo qualche sorso di vino. Un problema piccolo piccolo, sorrise ironico: lei era sparita. Volata via. Ormai era da tanto che girava e non l’aveva più rivista, si rimproverò riprendendo il cammino. Per giunta il giorno declinava e sarebbe stato meglio rientrare alla cittadella. Aveva lasciato il pony nella stalla e ora se ne pentiva. Sciocchezza colossale e al diavolo la sua mania di camminare. Basta. Avrebbe percorso un’altra lega poi sarebbe ritornato indietro. Le gambe iniziavano a dolergli, era sudato fradicio e a casa lo aspettavano per cena. Tanto non avrebbe rinunciato, non era da lui. Nella peggiore delle ipotesi sarebbe tornato. Ma adesso uno sforzo, s’impose il nano, un ultimo sforzo là dove la foresta s’infittiva, dove i rami pietrificati non permettevano quasi di avanzare. Dove non c’erano più sterrate o sentieri, dove quasi nessuno si avventurava perché poteva essere rischioso. Così s’inerpicò su una salita che gli permetteva una visuale migliore stando bene attento a dove metteva i piedi. A un tratto, però, dovette fermarsi perché fu investito da una nube di fumo che gli tolse quasi il respiro. Qualcosa bruciava e produceva un odore acre. Fece per tornare indietro ma ci ripensò. Si voltò di scatto e salì sopra un albero. Una faticaccia della miseria ma alla fine arrivò in cima.
Fumo in un luogo come quello. Strano, pensò Sen, cosa significava?
Tenendosi ben stretto al tronco di pietra anche a causa del vento, il nano aguzzò la vista e rimase sorpreso. Un villaggio. Poco distante. In fiamme. E corpi in terra. Probabilmente morti. Uccisi. Corpi femminili ma il fumo non permetteva di esserne certi. Ninfe. Un villaggio di ninfe così vicino ma lui non l’aveva mai visto prima. Idiota. Perché ogni volta che era stato qui non aveva mai preso quella salita? Dandosi dello stupido il nano scese dall’albero e si avviò verso il villaggio. Lo raggiunse alle prime luci della sera, vide le fiamme che divoravano le case di legno, le ninfe uccise e il loro sangue blu che dissetava l’erba. Riconobbe anche la fanciulla dalle ali gialle che giaceva vicino a una fonte.
Aveva gli occhi aperti e una delle ali strappate.
Sterminate. Massacrate: giovani, vecchie e bambine in questa specie di oasi naturale incastonata fra un mare di pietra. Alcune avevano ferite da taglio mentre altre erano state trafitte da dardi e frecce. Niente faceva pensare a stupri o torture e non c’era neppure traccia di un saccheggio. Perciò i briganti che pure ogni tanto si rifugiavano nella foresta non c’entravano, anche perché la precisione dei colpi degli archi e delle balestre era troppo elevata per le modeste capacità di quegli zotici scapestrati. Una precisione così poteva appartenere solo all’esercito degli uomini che non aveva però motivo di prendersela con le ninfe; oltretutto molte di loro erano giovani, notò Sen muovendosi in mezzo ai cadaveri, potevano valere davvero un mucchio di soldi come schiave di piacere. No. Gli uomini erano innocenti. Ma allora chi? Chi era stato?
Il nano si bloccò d’istinto.
Sagome. Avanzavano fra il fumo nero. Silenziose. Non le aveva sentite. Stupido. Ancora stupido ma ormai era tardi. Avevano spade e asce sguainate. Pochi passi e lo avrebbero sventrato. La paura di morire arrivò improvvisa. Folle. Sciocco arrivare fin lì da solo. Ma cosa voleva fare? Era andato nella foresta per non pensare ai soldi e invece si ritrovava nella merda proprio a causa loro. E adesso sarebbe morto. Ucciso da uno dei guerrieri che gli erano davanti. Minacciosi. Ostili. Letali. Che già lo circondavano. Occhi rossi, canini grossi e sporgenti, terribili. Con il cuore in gola, Sen decise di seguire il suo intuito. Salutò in posa marziale gli orchi: braccia tese e pugni chiusi.
«In nome del Re» gridò a voce alta.
Gli orchi si fermarono perplessi ma risposero al saluto.
«In nome del suo popolo.»
Poi quello che sembrava il capo fece un passo avanti e gli chiese: «Cosa stai facendo?»
«Ordine ricevuto nascondere i cadaveri, signore… mio signore» s’inventò lì per lì Sen in un orchesco abbastanza approssimativo, «spiazzo libero domani... prima di domani.»
L’orco lo sovrastava e Sen sentiva crescere il terrore dentro di sé. Un gigante con l’armatura che presto lo avrebbe divorato. Che puzzava di sudore e di birra. Orribile creatura con lui che non avrebbe retto a lungo. Nessuna possibilità di cavarsela. Era disarmato, era un mercante. Mentre quelli erano in sei, armati fino ai denti, soldati crudeli e spietati la cui fama era ben nota nei Territori Occidentali. Di sicuro erano loro i responsabili della carneficina, pensò Sen, raccomandando la sua anima agli Dei e restando sempre sull’attenti. I guerrieri intanto lo fissavano curiosi - armi alla mano - grugnendo e bofonchiando parole incomprensibili. Finché il capo non scoppiò a ridere, si abbassò verso di lui e gli diede una pacca sulle spalle che per poco non lo fece stramazzare a terra.
«Un soldatino nano che tende le braccia e che rimane sull’attenti… bene! Bravo! Continua così soldatino, farai carriera.»
«Posso proseguire, mio signore?» chiese il mercante, incredulo.
«Cero soldatino, certo» rispose il capo fra le risate sguaiate degli altri cinque.
Fece quindi un cenno e i guerrieri lo seguirono veloci. Sgusciarono di fianco a Sen che si sentì gelare il sangue. Poi quando furono lontani il nano si accasciò sull’erba e si mise a piangere. Lacrime di gioia per il pericolo scampato ma anche di dolore, perché la presenza di quei soldati nei Territori Occidentali poteva significare una cosa sola: la Terza Guerra fra uomini e orchi.
Lo aveva già capito.
Ricordi
di Marco Barbaro
Da dove mi ritrovo ora posso scorgere solo la foresta, i suoi alberi secolari, e delle strane iscrizioni.
Per un tratto a semicerchio perfetto inoltre, di fronte a questa caverna, é come se tutto fosse stato spianato.
Arbusti, cespugli, sassi, alberi...
Ma perché? E da chi?
Non so per quanti giorni io abbia dormito, né chi mi abbia abbandonato in questo anfratto.
Le maschere...
La foresta.
Credo ci sia un legame che va oltre queste parole che echeggiano senza un senso apparente tra i miei ricordi confusi.
Di fronte a me c'é anche un pozzo di cui non riesco a scorgere il fondo.
Oltre di esso ho scorto un'altalena. É in un punto apparentemente irraggiungibile di un albero, ma non so come continua ad oscillare, e il suo cigolare continuo e intermittente mi fa pensare agli spiriti della foresta di cui parlava... Lei.
Non ricordo il suo nome, solo il suo bellissimo volto, le sue labbra gentili.
E' come se qualcuno fosse entrato nei miei ricordi e di fatto avesse annullato parte del mio più recente passato.
Son sicuro che prima o poi troverò un sentiero che mi condurrà... altrove.
Una radura, una strada, un villaggio.
Villaggio?
Questa parola mi ricorda sensazioni contrastanti.
Evoca in me delle immagini piuttosto strane, confuse.
Come il fatto che questo quaderno/diario che ho trovato nascosto dalla vegetazione ai bordi del pozzo, abbia degli strappi piuttosto netti, precisi.
A questo punto non saprei dire il perché, ma non son più così certo di non avervi già scritto qualcosa prima...
http://www.wizardsandblackholes.it/?q=ilvillaggiodellemaschere