fuoco argento e la lacrima dell'unicorno
Incontri fortuiti
di Silvia Bordon
La Bettola del Tridente, affacciata sulla banchina occidentale del porto, era uno dei luoghi più frequentati di Remistiry, sebbene la struttura apparisse fatiscente.
L’intonaco, sgretolato in più punti, lasciava intravedere i mattoni sottostanti, scheggiati e ammuffiti. Gli infissi, scoloriti dal sole, erano corrosi dalle intemperie, coperti da una sottile pattina di salsedine. Le lettere dorate della vecchia insegna, sbiadite dal tempo, erano quasi illeggibili. Ogni dettaglio della facciata contribuiva ad accentuare il senso di abbandono, che permeava dall’edificio.
L’interno non era migliore. Si respirava un’aria pesante, stantia, mescolata agli aromi della cucina. Il pavimento di legno, sconnesso, scricchiolava ad ogni passo. Le pareti, rivestite con assi di quercia, erano ornate da quadri marinareschi, incastonati in pacchiane cornici di legno. Uno spesso strato di polvere tappezzava le mensole piene d’insoliti soprammobili e le venerande bottiglie di liquori esposte nello scaffale dietro al bancone. Vistose ragnatele pendevano dal soffitto, adornando le travi a vista e gli angoli anneriti dalla muffa. Un lampadario in ferro battuto, sospeso al centro della modesta sala, fiammeggiava untuoso, evidenziando il lerciume che regnava un po’ ovunque. Il fuoco scoppiettava allegro nel camino di pietra lavica, riscaldando un enorme pentolone contenete una strana zuppa dall’aspetto e dall’odore discutibile.
Pareva un posto dimenticato da Dio; eppure, la clientela non mancava.
Filibustieri, marinai, mercanti, pescatori e uomini di malaffare si avvicendavano nella squallida bettola, a tutte le ore. Ciò che richiamava tanti clienti nel locale, oltre all’appartata posizione periferica, era la riservatezza dell’oste, il quale non s’impicciava mai degli affari altrui, e la mancanza di controlli da parte delle guardie cittadine. Per questi motivi, era considerato il luogo per eccellenza, dove poter intrattenere affari poco leciti e sbronzarsi in piena tranquillità.
Ma una sera, alla bettola comparve un individuo discordante dai soliti avventori. Era un bel giovane sui trent’anni, dall’aspetto aristocratico e dai lunghi capelli castani legati dietro alla nuca. Sedeva composto al bancone, bevendo una pinta ambrata dallo strano retrogusto amaro.
L’oste, insospettito dalla sua presenza, gli si avvicinò.
– Ehi, tu… Cosa ci fa un signorino blasonato come te, in un postaccio come questo?
Norghe, infastidito, non rispose. Si limitò a guardarlo di sbieco, lanciandogli un’occhiataccia intimidatoria.
L’uomo ammutolì sbiancando in volto. Negli occhi del giovane vide ardere la stessa furia sinistra, che in passato infiammò lo sguardo di Ordan Strombones, lo spietato Fuoco Argento. In quell’occasione, un marinaio ubriaco osò palpeggiare il fondoschiena della femmina che lo accompagnava, una stupenda elfa dagli occhi del colore del mare. Lui reagì malamente, spaccandogli la mascella con un destro fulmineo di indicibile forza: l’elfa era la sua donna e nessuno poteva permettersi di mancarle di rispetto a quel modo.
L’idea che il giovane potesse essere il figlio di Ordan frenò l’oste, facendogli decidere di non indagare ulteriormente, onde evitare potenziali problemi con il terrore dei dieci mari. Così si allontanò, lasciandolo solo.
Norghe stava sorseggiando pensieroso la sua birra, quando le parole di una canzone sconcia, intonata da stonate voci biascianti, catturarono la sua attenzione. Un sorriso allegro gli si dipinse sulle labbra e si girò verso la sala per gustarsi lo spettacolo, appoggiando i gomiti al bancone.
Alcuni lupi di mare, mezzi ubriachi, cantavano in coro sbatacchiando in ogni direzione i boccali di ferro ricolmi di birra e ballavano scompostamente sui tavoli, al ritmo di un vecchio pianoforte tarlato. Altri litigavano per l’esito di una partita a carte, apparentemente truccata. Altri ancora provavano a corteggiare le sinuose cameriere, le quali rispondevano indisponenti con un ceffone ben assestato, istigando l’ilarità dei presenti.
Il giovane li osservava divertito, mentre volteggiava le mani al ritmo della musica, disegnando dei semicerchi nell’aria. Pareva completamente rapito da quella scena, tipica di una bettola di porto, ma in realtà teneva d’occhio l’intera sala. E all’improvviso, in mezzo a tutta quella gente, notò una stranezza: la presenza di un bambino biondo, che si aggirava furtivo tra i tavoli.
Il piccolo furfantello si avvicinava con discrezione agli uomini più ubriachi e, con mano di velluto, gli sfilava dalla cintola il portamonete, derubandoli dei loro averi.
Ridacchiando, Norghe osservò l’abile ladruncolo all’opera, fino a quando non sgattaiolò indisturbato fuori dal locale, senza che nessun altro si fosse accorto di lui.
Un istante dopo, la porta della bettola si spalancò, andando a sbattere rumorosamente contro la parete. Una folata d’aria calda invase la sala. Le fiammelle del lampadario e il fuoco nel camino traballarono impauriti. Dalle tenebre della notte emerse la figura di un uomo obeso, calvo, dagli abiti eleganti, che entrò con fare baldanzoso.
Raggiunto il bancone, si girò verso i commensali, quindi urlò – Birra per tutti! Offro io!
– Che cosa si festeggia, antiquario? – domandò un vecchio pescatore.
– La mia fortuna! – rispose tronfio l’uomo, afferrando il bavero della giacca con entrambe le mani.
– Hai trovato altre anticaglie da vendere a peso d’oro? – sghignazzò sarcastico un marinaio.
– No… mio caro. Niente anticaglie. Oggi, ho fatto l’affare della mia vita. Per quattro soldi, ho comprato un’antica mappa di un’isola, scritta in una strana lingua incomprensibile. Di primo acchito ho pensato che fosse robaccia fasulla. Ma quando l’ho esaminata sul banco della mia bottega, sul retro, ho notato le iniziali di Alichant Roghnar Balck.
– Bel colpo, Angus! Sei il solito fortunato! – esclamò l’oste sorridente, mentre asciugava un boccale con un canovaccio di cotone.
– Puoi ben dirlo! Una mappa di tal valore potevo trovarla solo io! – replicò l’uomo, vantandosi palesemente del fruttuoso acquisto.
– Per me è una balla! – disse tagliente il pescatore.
– Dai, faccela vedere, antiquario! – incalzò un altro.
– Eh no! La mappa sta al sicuro nel forziere della mia bottega… Non sono così sciocco da portala in un postaccio come questo… per farla vedere a chiunque – ribatté imperioso l’uomo, sollevando un mormorio scettico tra i presenti.
– Sempre la stessa storia… Vieni qua a vantarti delle tue merci per procacciarti clienti, ma ogni volta ti ritrovi con un pugno di mosche in mano. Dai Angus… lasciali perdere. Bevici su! – disse l’oste, porgendo un boccale di birra all’antiquario, il quale era chiaramente stizzito dalla situazione generatasi.
All’udire le parole arroganti del pomposo antiquario, un pensiero attraversò la mente di Norghe, come un fulmine a ciel sereno, facendolo sobbalzare sullo sgabello.
“Potrebbe essere la mappa che stiamo cercando da tempo…” pensò speranzoso; poi si girò nuovamente verso il bancone. Con lo sguardo perso nel vuoto, sorseggiò la birra bionda dal nauseante gusto dolciastro, appena versatogli dall’oste.
“Devo assolutamente visonarla… Ma come posso fare? Il mio interesse potrebbe allarmare l’antiquario… Inoltre, se fosse davvero lei, sarei costretto a sborsare un patrimonio per averla. Lui non la cederebbe facilmente a un prezzo ragionevole, soprattutto a causa delle iniziali. Devo trovare una soluzione… in fretta!” rifletté, seccando il contenuto del boccale.
Uscito dalla bettola, si ritrovò inghiottito dall’oscurità della notte, dilaniata dai raggi argentei della luna sorridente, che illuminavano debolmente ogni cosa, creando uno spettrale gioco di ombre. S’incamminò silenzioso lungo la banchina, rinfrescato dall’aria notturna che soffiava dal mare, profumata di salsedine.
Norghe aveva quasi raggiunto la sua piccola scialuppa d’ebano dalla vela nera, ormeggiata alla fine del molo, quando qualcuno gli sbatté contro scusandosi con voce angelica.
In quel breve lasso di tempo, sentì una mano minuta rovistargli sotto la redingote corvina e sfilargli il portamonete dalla cintola. Abbassò lo sguardo, facendo appena in tempo a intravedere una testolina bionda. Capì: il ladruncolo della bettola lo aveva derubato e stava fuggendo a gambe levate lungo la banchina, convinto di averla fatta franca.
Il pirata, indispettito da tale affronto, non poteva permettergli di scappare con tanta facilità. Così, infilò la mano sotto la redingote ed estrasse una strana pistola, simile a una Wheellock, con una pinza mobile di ferro temprato inserita nella canna, agganciata a un sottile filo d’indistruttibile mithril.
Presa la mira, premé il grilletto.
La pinza partì fulminea, più veloce di un proiettile, agguantando il furfantello per il colletto della maglia.
L’uomo sorrise beffardo e schiacciò un pulsante sotto l’impugnatura dell’arma, attivando un potente mulinello meccanico in miniatura, posto nell’alloggiamento riservato al tamburo. Il filo si avvolse velocemente sul misterioso argano, trascinandosi dietro il fanciullo. A nulla valsero i suoi tentativi di opporre resistenza e in pochi secondi fu nelle mani della sua vittima.
Norghe, irritato, lo afferrò saldamente per un braccio e lo strattonò.
– Cosa credevi di fare?
– Io… niente. Signore, la prego… non mi faccia del male.
– Non picchio i bambini… anche se tu, ti meriteresti quattro ceffoni ben assestati.
– Mi lasci andare… la prego.
– Sì… ti lascerò andare… quando saremo davanti alla guarnigione e ti consegnerò alle guardie!
– No... la prigione, no. Per favore, non portatemi dalle guardie… in cambio… farò tutto quello che vorrete… – piagnucolò disperato il ragazzino con gli occhi pieni di lacrime, nella speranza di riuscire a convincere il giovane a liberarlo.
A quelle parole, una strana idea baluginò nella mente del pirata: una soluzione al suo problema.
– Dunque… faresti qualsiasi cosa io ti chieda?
– Sì, signore. Qualsiasi cosa.
– Mmmm… Interessante. Potresti fare un piccolo lavoretto per mio conto… e, oltre a lasciarti andare, ti ricompenserei con cinquanta dobloni d’oro… che ne dici? Accetti l’offerta?
– Sì, signore. Accetto!
– Ottimo!
– Cosa devo fare per voi?
– Ebbene…
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