Luca Pappalardo

Storia di uno scorpione di Luca Pappalardo

Storia di uno scorpione

 Storia di uno scorpione di Luca Pappalardo - (copertina di Fabio Pistolesi)

Paladino dei deboli, difensore della virtù, faro di nobiltà ed esempio di coraggio: Balthasar non è niente di tutto ciò. In compenso ama bere, preferibilmente in dolce compagnia (umana o elfica fa lo stesso), e inventare storie a cui (immancabilmente) nessuno crede mai. In un mondo spietato che sembra conoscere bene e nel quale si fa strada a colpi di sorrisi smaglianti, si è inventato un mestiere adatto alle sue doti. Ma allora com’è che è sempre in bolletta?

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ISBN: 978-88-99147-14-3
Text trailers:
Fuga dal Paradiso
(L. Pappalardo)
Un'ordinaria notte di lavoro (S. di Sante e L. Pappalardo)
Nient'altro che un oggetto (C. Zanini)

Alla corte del Re

di Luca Pappalardo

Certi uomini, pur di presenziare alla corte del Re, sarebbero stati disposti a tutto. Vi erano favori che solo il Re poteva concedere, e quegli uomini lo sapevano bene. Accedere alla sua corte non era cosa facile, certo, e talvolta quegli stessi uomini si ritrovavano a dover pagare un prezzo a cui si immaginavano disposti solo nella fantasia (scontrandosi spesso con una realtà differente). Ma chi aveva il coraggio di fare quanto necessario, raramente finiva per rimpiangere la propria scelta.
Altri uomini, di più modeste ambizioni e di minor coraggio, preferivano (nell'inseguire i propri scopi) affidarsi alla legge del sovrano di Parìs, confidando nella bontà dell'ordine costituito.
Mentre scivolava lungo i vicoli bui di Montjaune, Davronche aveva pochi dubbi su quale monarca meritasse la sua ammirazione. Che signorotti e leccaculo restassero pure attaccati alle sottane del Re imparruccato e incipriato: lui avrebbe ottenuto il favore del vero Re.
Dove, nelle ore più buie della notte, anche i gendarmi si infilavano con cautela: quella sì era una Corte regale che sarebbe valsa la pena vedere! Fra melma, reietti e puttane, nelle profondità di una cava di calcare abbandonata, regnava l'uomo che aveva ottenuto il rispetto di tutta la feccia parigina: Nadrien, re dei farabutti, nume dei disperati, principe dei ladri.
A metà fra uomo e mito, Nadrien era il genere di lestofante sul quale le leggende si sprecavano: quella preferita di Davronche lo voleva accerchiato dai gendarmi dopo un colpo fallito, prossimo ad essere trafitto da una baionetta. Con la sola mano destra avrebbe afferrato la lama dell'arma, fermandone l'avanzata, e con la sinistra avrebbe abbattuto il gendarme in un singolo colpo, per poi fuggire dalle altre guardie troppo attonite per reagire.
Per un ragazzino giovane come Davronche non era stato facile arrivare a lui: c'erano voluti tempo, fatica e capacità di sopportazione. Ma alla fine era riuscito a farsi notare, superando la diffidenza e il divertimento di chi lo riteneva solo un ladruncolo fra tanti. Dopo mesi di fatica, sforzi e domande, uno degli uomini di Nadrien l'aveva avvicinato. Non il pezzo grosso in persona, ovviamente: un pivellino come lui non poteva certo sperare di incontrarlo subito, così, come se niente fosse. Ma era un buon inizio: se avesse voluto entrare nei ranghi del Re, avrebbe dovuto provare il suo valore con un gesto simbolico.
Il compito che gli avevano affidato era tanto semplice quanto grottesco: penetrare di notte nel Cimitero degli Ingenui e rubare il femore di un cadavere.
Al riparo dietro la Chiesa dei Poveri Ingenui, Davronche fissò con occhi velati di terrore lo spettacolo che gli si parava davanti: il luogo era oramai diventato impraticabile. Negli anni precedenti le piogge, complice l'uso eccessivo che era stato fatto dello spazio, avevano trasformato il suolo funerario in una macabra composizione di fango e morte. I cadaveri sporgevano dal terreno, alcuni parzialmente decomposti, altri quasi scheletri. Alcune tombe erano state sommerse dalla melma, altre avevano le lapidi distrutte. Trovare un femore non sarebbe stato difficile: gettarsi a capofitto in quel ricettacolo di orrore, però, era tutto un altro discorso.
Dopo qualche minuto e due respiri profondi, finalmente Davronche si decise: una nuvola oscurò la luna, facendo calare il buio sulla città e permettendo al giovane di scattare verso uno scheletro quasi completamente disseppellito poco distante da lui. Vedeva abbastanza bene da poter riconoscere il femore, afferrarlo e scappare nella direzione opposta a quella da cui era venuto: a contatto con la mano l'osso era freddo, secco, gli sembrava più fragile di quel che sarebbe dovuto essere. Respingendo un moto di disgusto, il giovane ladro continuò trionfante la propria corsa, prossimo a rituffarsi nei vicoli. Ma proprio quando stava per essere inghiottito dal buio dei palazzi, si ritrovò a sbattere il muso in terra: l'osso gli cadde di mano, rotolando via.
- A quanto pare voi mocciosi non avete rispetto nemmeno per i defunti.
Dritto disteso in terra, Davronche alzò lo sguardo: di fronte a lui troneggiava un uomo alto e massiccio. Aveva i capelli neri e lunghi fino alle spalle, la mascella squadrata e un folto paio di baffi neri. Alla luce della luna Davronché potè distinguerne lo sguardo: fermo e penetrante, in due occhi neri come il carbone. A coronare il tutto e sancire la definitiva sfortuna del ladruncolo, l'uomo indossava quella che sembrava essere proprio una divisa da gendarme.
- Allora, moccioso? Hai qualcosa da dire?
- Ehm... Io stavo solo passando per di qui, non so cosa intende...
- Non mi raccontare fesserie, sei venuto a rubare nel cimitero vero? A rompere qualche lapide per divertirti? Dovrei portarti dritto in caserma.
Le cose volgevano al peggio e Davronche non sapeva che pesci prendere. Steso a terra, dolorante e immobile, con un gendarme prossimo a chiudergli le manette ai polsi, pregò silenziosamente San Dismà affinchè lo tirasse fuori dai guai.
- Ma per stasera mi sento buono. Mettiamola così, fai una cosa per me e potrai andartene.
Davronche lo fissò con sospetto:
- Cosa dovrei fare?
L'uomo, di rimando, gli ghignò: – È molto semplice: leccami la suola dello stivale destro e augura lunga vita al sovrano e alla monarchia. Fallo e potrai andartene. Altrimenti ti aspetta la galera, se non peggio.
Davronche fissò l'uomo dal basso verso l'alto per qualche attimo, in silenzio. Quindi, steso com'era di fronte a lui, alzò la testa quanto bastava per sputargli sui piedi. L'uomo rimase immobile, guardandolo.
- Molto bene. Avrai ciò che meriti.
Davronche lo vide alzare la mano destra e chiuse gli occhi, pronto a ricevere il colpo. Ma dopo secondi interminabili si rese conto che il colpo non arrivava. Si azzardò ad aprire gli occhi, solo per vedere quella stessa mano tesa di fronte a lui, in un'offerta di aiuto.
Confuso e ancora pieno di sospetto, ma troppo spaventato per rifiutare quell'occassione, la afferrò e si alzò in piedi. E mentre lo faceva notò due cose.
La prima era che la notte attorno a lui si era popolata: in cima ai tetti, da dietro i muri, sbucate fuori dall'aria stessa, stavano una decina di persone – uomini e donne, per la maggior parte vestiti di stracci e tutti quanti accomunati dall'inconfondibile lezzo della povertà. I loro sguardi erano tutti su di lui: alcuni, notò, davano di gomito ad altri. Altri ridevano, ed altri ancora si limitavano a fissarlo a braccia conserte.
La seconda cosa che notò fu la cicatrice larga un pollice che attraversava da parte a parte il palmo della mano destra dell'uomo. Quello stesso che ora, sorridendo con una malizia quasi diabolica, gliela porse da stringere: lo scintillio nei suoi occhi era una promessa di follia, successo e insieme ambizione.
- Ben fatto, Davronche. Benvenuto alla corte del Re.

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Un'ordinaria notte di lavoro

di Salvatore di Sante e Luca Pappalardo

Città di Qadath, Prima Capitale del Regno, Terzo Anello

- Ehi tu, sveglia! - Gordat assestò un calcio a un mendicante accovacciato nel vicolo maleodorante. - C'è il coprifuoco, non puoi stare qui! - berciò il mercenario.
Il vecchio piagnucolò tirandosi sulla testa il saio lacero e coprendosi il volto con le braccia ossute. Gordat imprecò e lo spinse a terra con lo stivale. Torylo gli sputò addosso e si ficcò in tasca i pochi oboli dell'elemosina.
- No, quelli no, vi prego - il vecchio sollevò il busto e protese le braccia verso il soldato che l'aveva derubato. I due ridendo ripresero la ronda come se niente fosse. Balthasar aveva osservato la scena un po' in disparte. Era in momenti come quelli che si ricordava perché far parte della Guardia Cittadina non fosse proprio un punto di forza del suo curriculum vitae. Un manipolo di canaglie che sotto l'egida dei Triumviri sfogavano la propria ferocia sui più deboli. Ma d'altronde era un lavoro pagato, e solo il Dio sapeva quanto le tasche di Balthasar fossero costantemente bucate.
Di certo però non era così che se l'era immaginata, quando si era arruolato. Al tempo in cui Qadath era all'apice del suo fulgore e il futuro non faceva paura, sembrava un lavoro tanto onesto quanto ben pagato. Quanto in fretta cambiano le cose.
- Guarda un po' chi abbiamo qui... - sentì dire a Torylo. Balthasar si accodò ai compagni e notò una figura esile che si tagliava sempre più nitidamente tra la polvere e i vapori che si alzavano dal selciato.
 - Ciao bocconcino - berciò Gordat - che ci fai in giro a quest'ora tutta sola soletta?
Le fiamme delle torce appese lungo le abitazioni illuminarono un volto elfico di rara bellezza.
- Vengo dal Secondo Anello e devo portare una pozione medicamentosa a mio fratello che abita poco distante. - Parlava con voce sommessa, facendo saettare solo di tanto in tanto i penetranti occhi verdi sui volti dei tre soldati. Quando incrociò quello sguardo, Balthasar sentì muoverglisi qualcosa dentro. E per una volta, non solo dentro i pantaloni.
- Eh ma non si può. Durante il coprifuoco, dal tramonto all'alba, a nessuno è consentito gironzolare per il Terzo Anello. Mi spiace dolcezza, legge del Triumvirato. - sorrise beffardo Torylo spogliandola con lo sguardo.
- Devi pagare pegno, zuccherino - sibilò Gordat avvicinandosi e cercando di sfiorarle i capelli. La fanciulla si ritrasse con un balzo ma andò a sbattere sul corpaccione di Torylo che nel frattempo le si era portato alle spalle.
 - Dai ragazzi, direi che per stasera ci siamo divertiti abbastanza...  - si lasciò sfuggire Balthasar, ma senza troppa convinzione.
Torylo l'aveva immobilizzata cingendole il collo con un braccio e con l'altro le palpava brutalmente il seno. La giovane gridava e si dimenava e nella concitazione gli svolazzi della tunica rendevano il gioco ancora più eccitante.
- Tienila! - esclamò Gordat calandosi i pantaloni e afferrandola per i fianchi.
Balthasar osservò la propria mano muoversi verso la spada, ma un bagliore improvviso lo fermò.
 Gordat gridava contorcendosi per terra con le mani sull'inguine; la ragazza con un balzo felino si era liberata dalla presa di Torylo che nel frattempo aveva sguainato la spada.
 - E va bene. L'avete voluto voi. Volete scaldarvi un po'? - intimò la fanciulla plasmando un altro globo incandescente con rapidi e sapienti movimenti delle mani.
 - Arti Arcane. Hai capito l'innocente fanciulla. - pensò Balthasar, che già simpatizzava con la fuorilegge.
L'Elfa scagliò la palla di fuoco contro Torylo, ma quello si abbassò prontamente, rimediando solo una leggera bruciatura all'orecchio.
 - Adesso la paghi! - Nel frattempo l'altro si era rialzato e brandiva la sua mazza ferrata. La giovane tirò fuori dalla tasca un barattolino con una mosca.
- Sanĝoj formon batalanto (1) - recitò. In un cozzare di placche metalliche l'insetto si tramutò in una possente armatura dal cui pentolare fiammeggiavano due iridi rossastre. Il mostro ingaggiò battaglia con Gordat vibrando fendenti sovrumani, ma era molto lento e la sua scimitarra andava sempre a vuoto. Stanco di schivare Gordat cercò di parare il colpo ma non fu un'idea brillante: lo scudo andò in frantumi in una miriade di schegge e la forza d'urto lo scaraventò a terra, facendogli perdere conoscenza.
Balthasar seguiva la scena senza intervenire, incerto su come sentirsi. Nel frattempo Torylo era scampato a un altro attacco di fuoco; sacrificando il suo scudo si era gettato sulla fanciulla ed era riuscito a prenderla per il collo. Il soldato stringeva, l'Elfa si piegò sulle ginocchia gemendo. Nello stesso istante anche il cavaliere-mosca barcollò e cadde a terra. L'incantesimo perdeva efficacia.
- Puttana! - sibilò Torylo - Adesso muori!
Fu l'ultima cosa che disse, dato che un attimo dopo qualcosa lo colpì alla nuca con violenza inaudita, facendolo crollare a terra come un sacco di patate.
La donna, liberata dalla stretta dell'uomo, si ritrovò a fissare con occhi stupiti il suo inatteso salvatore. Fermo di fronte a lei, con la spada ancora levata in alto, Balthasar sospirò, per poi farle l'occhiolino.
- Dovrò inventarmi qualcosa di davvero originale, questa volta. -
L'elfa, alzatasi in piedi, gli sorrise.
- Non sei esattamente un soldato modello, vero? - mormorò.
- E tu non sei esattamente una giovane indifesa. Facciamo una bella coppia io e te, no?
L'espressione di lei tornò ad un certo sospetto, e già alzava una mano in aria, ma Balthasar si affrettò ad indietreggiare.
- Ehi, rilassati, scherzavo. Per stanotte avrò abbastanza problemi. Su, vola via prima che questi due si riprendano. - Lei restò ferma per un po', incerta. Poi si voltò.
- Grazie, soldato – disse semplicemente, sparendo di nuovo nel buio da dove era venuta.
- Nemmeno un bacio. Ecco che ci guadagno a fare l'eroe – si disse Balthasar con amarezza, scuotendo la testa. Quindi si stese a terra e chiuse gli occhi, iniziando a ragionare su quale favola avrebbe raccontato ai suoi compagni una volta rinvenuti. Non gli sarebbe certo venuto difficile. Sbadigliando, pensò che in fondo quella notte gli era andata bene: con la scusa di fingersi svenuto, si era guadagnato qualche minuto di sonno meritato.
La vita della Guardia Cittadina, imprevisti a parte, non era poi così male.

Le avventure di Balthasar continuano su: http://wizardsandblackholes.it/?q=storiadiunoscorpione

(1) Formula magica in Esperanto. Significa: «Cambia forma in guerriero.»

 

Fuga dal Paradiso

di Luca Pappalardo

 - Ovviamente ho dovuto rifiutare, quello che faccio ora è troppo importante – per il mondo, intendo, in una visione globale – per poter smettere. Per non parlare della povera Keria! Non oso immaginare cosa farebbe senza di me.
 L'uomo che aveva parlato si rigirò sul triclino, afferrando la coppa in bronzo posata in terra accanto a lui e scolandosi con un risucchio non esattamente delicato l'ultimo sorso di quello che doveva essere un vino decisamente buono. Almeno, rifletté lui, stando a quanto lo aveva pagato.
 Il prezzo era peraltro l'unico indicatore che l'uomo aveva per misurare la qualità del vino che beveva, essendo del tutto ignorante in materia. Cosa che non gli impediva comunque di bere vini estremamente costosi, quando le sue tasche o l'ingenuità di chi aveva davanti glielo permettevano.
 Accanto a lui una donna dalla pelle scura gli passò le unghie sulle schiena, avvinghiandosi con il corpo nudo al suo.
 - Quindi, ricapitolando: dopo aver esorcizzato una manifestazione del Nemico che stava attentando alla vita del Triumviro, ti è stato offerto un posto nella cerchia più stretta dei collaboratori del Regno (cerchia della quale non puoi dirmi nulla per questioni di segretezza).
 - Esattamente.
 - E tu l'hai rifiutato per poterti continuare a scopare l'elfetta che ti fa da segretaria.
 Scoppiarono entrambi a ridere, rotolando giù dal Triclino sul morbido tappeto in pelle di tigre.
 - Mia cara Lethe, sei più tagliente di un foglio di carta maledetto da uno stregone frustrato - disse l'uomo, alzandosi e dirigendosi con passo barcollante verso una credenza. Era decisamente ubriaco, ma la caraffa ricolma di vino che gli stava davanti mormorava una promessa troppo invitante per potervi resistere.
 Mentre beveva direttamente dalla brocca si rimirò allo specchio, compiaciuto di ciò che vedeva: ok, un filo di pancia c'era, ma era la prova del fatto che sapeva approcciare la vita dalla giusta angolazione. Per il resto, i muscoli erano pochi e magri ma definiti e tesi a sufficienza da essergli utili (e a breve avrebbe scoperto quanto gli sarebbero serviti).
 Dopo essersi bevuto gran parte del vino si pulì la bocca con un mormorio soddisfatto. Una parte della sua mente, quella più ubriaca, apprezzò la rinnovata carica di euforia che già gli appannava il cervello; una seconda parte della sua mente, su un binario parallelo, calcolò che quella brocca era l'ultima che avrebbe potuto permettersi. E la Donna Scarlatta, la maîtresse del luogo in cui si trovava, non apparteneva alla categoria dei facilmente imbrogliabili. Al Paradiso le promesse erano apprezzate quanto un eunuco.
Una terza parte della sua mente si collegò per puro caso alle orecchie, quindi – perplessa – si consultò con le altre due per un parere su ciò che aveva udito. Al termine di quella riunione l'immaginaria trinità venne ricondotta ad un unicuum, che costrinse l'uomo a prendere consapevolezza dei suoni che provenivano dal piano inferiore.
 - BALTHASAR! MALEDETTO FIGLIO DI PUTTANA, VIENI FUORI!
Sentì la donna dietro di lui muoversi: si voltò e con un gesto fluido afferrò i pantaloni che lei gli aveva gettato.
 - Di chi si tratta, questa volta? - disse lei con un tono di finto rimprovero da cui trapelava un evidente divertimento.
 - Sicuramente un increscioso caso di omonimia, o forse qualche povero contadino sotto gli effetti di un Incantesimo Ammaliante: i malvagi che mi odiano sono così tanti!
 - A giudicare dal timbro della voce è un Orco, e pure parecchio incazzato.
 Infilatosi i pantaloni, Balthasar scattò in avanti e le scoccò un bacio, per poi fiondarsi alla finestra ed aprirla.
 - Motivo di più perché tu ti metta in un angolo e ti nasconda, magari sotto un bel lenzuolo.
 La donna sbuffò, estraendo da dietro al letto due lunghi pugnali dal manico in avorio. Balthasar non sapeva quanto sapesse usarli, ma qualcosa nel sorriso di lei gli suggerì di rivedere le sue valutazioni.
 - Tranquillo eroe, preoccupati di andare. Tanto cerca te, vedrai che non dovrò nemmeno usarli.
 - Sei una donna fantastica, Lethe - disse solennemente Balthasar, salendo sul bordo della finestra. Sotto di lui, almeno tre metri di caduta libera: nulla di paragonabile ad un Orco violento.
 - Balthasar?
 - Si cara? - fece lui voltandosi. La punta di uno dei pugnali era a pochi centimetri dalla sua faccia.
 - Non hai pagato.
 In quel momento la porta alle loro spalle decise di trascendere la materia, o meglio: fu disintegrata dalla spallata di quello che sembrava essere un armadio verde, zannuto e decisamente di pessimo umore. Sufficientemente scenico da distrarre la donna per un attimo, e a Balthasar tanto bastava: uno scatto in avanti, e sparì oltre la finestra. Alle sue spalle, l'ululare feroce dell'Orco si mescolò alle parole della donna (nelle quali però fu certo di udire un "Buona fortuna, idiota").
Le avventure di Balthasar continuano in Storia di uno Scorpione.