Alizée

Sorelle

di Irene Grazzini

Era notte e la ragazza sedeva a gambe incrociate sul pavimento. Le fiamme ardevano nel braciere davanti a lei e il loro scoppiettio era l’unico suono che si udiva nel grande tempio.
Non era stato sempre così silenzioso.
La ragazza ricordava un tempo in cui quelle mura antiche si erano riempite del tintinnio divino dei sistri, di giocose risate, dello scalpiccio di piccoli passi che correvano insieme, le mani strette l’una all’altra ad accendere gli incensi aromatici che amavano tanto...
“Lei li amava, non io!”
Fu con un gesto quasi rabbioso che gettò la manciata di incenso nero nel braciere. Le lingue di fuoco si contorsero come i lineamenti del suo volto, gettando ombre tremolanti nella stanza vuota e fredda.
Lei se n’era andata.
L’aveva lasciata sola a compiere quei piccoli gesti quotidiani di cui non trovava più il significato, se mai c’era stato. Pregare, pregare, pregare... per cosa? Per una massa di bifolchi che non si meritavano nulla? Accarezzare un potere così grande, e usarlo per gli altri invece che per la loro felicità?
Sì, avrebbero potuto essere felici insieme, come quando erano bambine e giocavano sui gradini del tempio. Avrebbero dovuto, la ragazza lo sapeva, perché loro erano state legate fin dal momento in cui avevano visto la luce insieme. Si somigliavano così tanto, con gli stessi capelli biondi come il grano maturo, la pelle diafana ricamata di luce, gli occhi come raggi di sole...
Eppure non potevano essere più diverse.
Eppure lei l’aveva tradita, andandosene e voltando le spalle alla vita che avevano condiviso.
“Non è vero” Si disse la ragazza. Lei se l’aveva lasciata molto prima, anche se era rimasta al tempio: si era allontanata lentamente, un passo per volta, perché ascoltava gli insegnamenti di vecchi stolti, perché non voleva usare il potere per sé, per loro. Quando gliel’aveva proposto, lei l’aveva guardata... la ragazza ricordava ancora quello sguardo, conficcato nell’anima come un coltello.
Non era arrabbiato.
Era solo deluso, e ricolmo di pietà.
“Non voglio la pietà di nessuno!”
No, la ragazza voleva il potere. Quello vero. Ma la sorte era stata beffarda e non l’aveva destinato a chi era in grado di usarlo. L’aveva destinato invece a lei, che l’avrebbe sprecato per il bene di un mondo inutile e meschino.
Un sorriso le affiorò sulle labbra tese.
Ma ora lei se n’era andata davvero, offrendole una possibilità. Avrebbe potuto prendere il suo posto e diventare la Prima Sacerdotessa, ciò che aveva sempre voluto sopra ogni altra cosa.
C’era un solo problema: poteva esserci una sola Prima Sacerdotessa nell’universo.
La ragazza tornò a fissare le fiamme, in cui bruciavano i ricordi di una vita passata insieme. Scavò dentro di sé per cercare qualcosa: nostalgia, amarezza, rimorso. Non trovò nulla. Soltanto rabbia per non aver avuto ciò che le spettava di diritto.
– Io sono Ìnnia – mormorò nella notte – E sarò la Prima Sacerdotessa a ogni costo!
Anche se significava liberarsi per sempre della sua sorella gemella.
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La violenza della Luce

di Chiara Zanini

La processione della festa della Luce era quanto di più tedioso esistesse al mondo. Ma così andava avanti da secoli, e di certo lui era l’ultima persona che potesse farsi avanti e reclamare che venisse modificata qualche parte della funzione.
Così, Rahel si limitò a raddrizzare il busto e osservare i movimenti flessuosi di un gruppo di Bannyi, le donne dalla pelle verde bosco, che salivano i gradini del tempio con un’eleganza naturale che avrebbe potuto far perdere la testa a più di un Baizaan.
Ma non a lui. Lui aveva occhi solo per una persona.
Chiuse le palpebre per un momento, lasciando che ogni emozione scorresse via dal suo corpo. Era la sua caratteristica, no? Farsi scivolare tutto di dosso, mantenere la pacata tranquillità dell’acqua che fluiva dentro di lui.
Funzionò, almeno per qualche istante.
Quando riaprì gli occhi c’era una manciata di Kenàti, davanti all’entrata del tempio, che camminava con passi pesanti: pareva quasi che da un momento all’altro avrebbero assunto la loro forma di albero e si sarebbero radicati nel lastricato della piazza.
Non erano certo loro a impensierirlo. Era la schiera di Baizaan alle loro spalle, piuttosto, che li superarono e balzarono sui gradini con la loro innata spavalderia. Uno di loro era così su di giri da non riuscire nemmeno a trattenere le sue fiamme interiori, tanto che la pelle nuda delle braccia esalò un filo di fumo.
Era il caso di fermarli e impedire loro di partecipare alla funzione? No. Tutto sommato sembravano a posto, perfino più tranquilli del solito.
Rahel lanciò un’occhiata a suo fratello Fadel, ritto in piedi dall’altra parte del portale. La sua agitazione era evidente: la pelle bluastra aveva assunto una sfumatura color cobalto, e l’acqua che era dentro di lui pareva infuriare nel suo corpo a tal punto da rischiare di sfondare la pelle e scrosciare all’esterno.
“Controllati,” gli ordinò Rahel, con tutta la calma di cui era capace.
Sapeva che avrebbe eseguito il suo ordine, come sempre: suo fratello era un’anima gentile, incapace di fare del male a chiunque malgrado la sua carica di Protettore della Prima Sacerdotessa. Come si aspettava, si limitò a deglutire e dardeggiare gli occhi qua e là, ma non mosse un muscolo mentre i Baizaan gli sfilavano davanti e fino a quando l’ultimo dei Kenàti non ebbe oltrepassato la soglia del tempio.
Non c’era più nessuno nella piazza, ormai. Era ora di entrare, e glielo confermò l’arrivo della Terza Sacerdotessa, che si avvicinò quasi fluttuando sul pavimento con il suo incedere solenne e gli rivolse a malapena un cenno altezzoso del capo.
Rahel si mise sull’attenti e annuì, poi, all’unisono con suo fratello, chiuse le porte. Avevano ripetuto gli stessi gesti talmente tante volte, negli anni, che erano sincronizzati fino al più piccolo battito di ciglia.
Percorse la lunga navata laterale facendo risuonare i tacchi dei propri stivali a ritmo con quelli di Fadel: la massa di fedeli raccolta in ginocchio era così silenziosa che quello pareva l’unico suono dell’intero tempio.
Raggiunse lo scranno della Prima Sacerdotessa nello stesso momento di suo fratello, che si posizionò dall’altra parte.
Raddrizzò le spalle, posò una mano sul pomello della spada rituale che teneva appesa a un fianco, restò in attesa. Come tutti.
Sapeva cosa stava aspettando ognuno di loro: di vedere la luce della Prima Sacerdotessa, lasciarsi colmare dal senso di armonia che si provava in sua presenza.
E lui?
La attendeva per tutt’altro motivo. Perché l’immagine del suo viso si era infiltrata nei suoi occhi, nel suo sangue, dentro di lui.
Non poteva più vivere, senza averla accanto.
Un colpo improvviso di sistri lo fece sobbalzare come se fosse stato colpito dalla fiamma di un Baizaan. Scosse la testa, inquieto: il suo unico pensiero doveva essere proteggere la Prima Sacerdotessa. Non, certo, innamorarsi di lei.
Sollevò lo sguardo, e il cuore gli mancò un battito. Eccola, la Prima Sacerdotessa. Di più: una dea, che incedeva tra la folla con tale eleganza che mai nessuno avrebbe potuto eguagliarla.
Era così raggiante, quel giorno, con i capelli d’oro che le scivolavano fino alla vita e l’aura di luce che zampillava intorno a lei a ogni passo, che Rahel non riuscì a reggerne lo sguardo. Si ritrovò a fissare il pavimento, seguendo a malapena con la coda dell’occhio i suoi movimenti aggraziati mentre si accomodava sullo scranno giusto accanto alla sua spalla e posava le mani affusolate sui braccioli di legno dorato.
La Prima Sacerdotessa intonò il canto in onore del dio della Luce con una voce così pura che, per un momento, Rahel dovette appoggiare la schiena alla parete per non crollare a terra.
Che razza di comportamento era quello? Di sicuro non quanto richiesto a un Protettore.
Scosse la testa, si costrinse a ritrovare la concentrazione. Lanciò un’occhiata ai volti dei sudditi inginocchiati nel tempio: avevano tutti un’aria rapita mentre invocavano il dio, chi a occhi chiusi, chi con le mani giunte, chi raccolto su se stesso a capo chino.
Ma suo fratello, dall’altra parte dello scranno… Lui non fissava in preda al fervore religioso la volta dorata del tempio ricoperta di tessere di mosaico sfavillanti di luce, né, come avrebbe dovuto, controllava che la folla se ne stesse quieta al proprio posto. E di certo non stava guardando le navate laterali per verificare che fossero sgombre in caso di pericolo, o le sacerdotesse che agitavano i turiboli d’incenso disperdendo i fumi aromatici tra i fedeli.
Stava fissando la Prima Sacerdotessa, con il volto trasfigurato da un’emozione così violenta che tutta l’acqua dentro di lui sarebbe potuta evaporare.
Rahel sentì un tuffo al cuore.
Da quel momento in poi, non riuscì più a concentrarsi su nulla. Né sui canti, né sulle danze degli officianti né sulla lunga litania delle invocazioni. Si ritrovò a lanciare occhiate sempre più frementi di tensione verso suo fratello.
E verso la Prima Sacerdotessa. La sua unica fonte di luce.
I sistri che indicavano il termine della funzione suonarono fin troppo presto, risvegliandolo di scatto dal delirio in cui era precipitato.
Serrò i pugni, quando vide la Prima Sacerdotessa alzarsi dallo scranno, sorridere alla folla, inchinarsi davanti a tutti per poi ritirarsi nella stanza più interna, quella del recinto sacro.
Era ora di darsi una mossa, controllare che i sudditi uscissero in buon ordine, richiudere le porte del tempio. Suo fratello doveva mettersi al suo fianco, come prevedeva l’etichetta.
Invece, lo vide esitare. Scuotere la testa un paio di volte, quasi nemmeno lui si rendesse conto di quello che stava per fare, avvicinarsi con una strana luce febbrile negli occhi color zaffiro. “Puoi… Puoi completare tu, il rito, stavolta?” gli chiese, con un’espressione allucinata che non era da lui. “Vorrei dire una cosa in privato alla Prima Sacerdotessa.”
Mai in vita sua Rahel era rimasto così sbalordito.
Ma cosa poteva fare? Cedere alla gelosia, attaccare il suo stesso fratello?
S’impose di ritrovare la calma, anche se sentiva un torrente di emozioni scrosciare dentro di sé. “Stai attento a non avvicinarti troppo,” disse solo.
La Prima Sacerdotessa era pura luce. Ma così potente da essere capace di distruggere.
S’incamminò lungo la navata laterale, seguendo distratto la folla variopinta che usciva dal tempio. Qualche Baizaan lo seguì con lo sguardo, ma tennero tutti le mani a posto. Dopo il rito, di solito gli animi di tutti gli abitanti di Danaa erano pacificati per un bel pezzo.
Non il suo, quel giorno.
Rahel richiuse le porte del tempio e restò per un momento immobile, fissando le sculture di bronzo senza vedere davvero quello che aveva davanti agli occhi.
Doveva sapere, non poteva resistere.
Si voltò, tornò indietro a grandi passi, consapevole di aver risvegliato la curiosità delle sacerdotesse che stavano riponendo i sistri e aspergendo i pavimenti con l’acqua di rose.
Imboccò la porticina del recinto interno senza neanche rendersi conto di quello che stava facendo. Arrivò accanto all’altare della Fiamma Perpetua e…
Eccoli lì.
Tutto a un tratto ebbe l’impressione che il soffitto gli fosse crollato addosso.
Suo fratello era inginocchiato davanti alla Prima Sacerdotessa, il viso affondato nelle pieghe delle sue vesti. La stringeva a sé con tanto fervore che pareva avesse intenzione di strapparle l’anima dal corpo.
E il volto di lei era… strano.
Non soffuso della consueta armonia, della gioia pacata e lontana da tutto che la contraddistingueva. Era trasfigurato, piuttosto: quasi animato da una gioia selvaggia che rasentava la follia.
Per un momento Rahel fu incapace di muoversi. Ma, quando vide l’aura di luce che circondava la Prima Sacerdotessa espandersi, avvolgendo suo fratello in un globo scintillante, e diventare quasi rovente, si obbligò a gettarsi in avanti.
Spalancò la bocca, cercando di lanciare un grido di allarme, ma la luce divenne così violenta da accecarlo. Lo spinse indietro, sbalzandolo contro una colonna del tempio con tanta forza da strappargli il fiato dai polmoni.
Rahel si ritrovò in ginocchio, trafitto da un raggio di potere.
Provò a riaprire gli occhi, ma non riuscì a vedere nulla.
Intorno a lui, c’era solo luce.
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