Colpo grosso
La vita di Askos
di Aurora Torchia
Askos adorava la sua vita. Come aveva detto a quel notevole esemplare di essere umano poche ora prima, era una persona importante. Molto importante. Tuttavia, non era il potere la cosa che amava della sua vita, bensì ciò che il potere gli donava: una quantità smodata di denaro e il tempo libero necessario a spenderlo.
Stava giusto indulgendo in questi e altri piacevoli pensieri quando il suo dispositivo per la comunicazione interstellare trillò, precipitandolo dai propri sogni di gloria a quella che era forse l'unica macchia nella sua meravigliosa e fatata esistenza.
- Sei già arrivato? Perché non mi hai chiamato?! Eppure ti avevo detto di farlo, no? Possibile che tu non sia capace di ricordare neppure le cose più semplici?! Aveva ragione mia madre!
L'alieno si affrettò a portarsi il comunicatore all'orecchio, togliendo il viva voce.
- Ma biscottino mio, lo sai che sto andando a un incontro molto importante e...
- Ah, è così che stanno le cose?! - Tuonò la voce femminile dall'altro capo dell'apparecchio – nonché della galassia - Il tuo lavoro è più importante di me, giusto? Come al solito, vero? Dillo che non mi sopporti!
Un singhiozzo disperato, seguito da una voce chioccia che ebbe il potere di gelargli il sangue nelle vene.
- Piccina mia, cosa ha fatto quel disgraziato di tuo marito questa volta?! Ah, ma aspetta solo che ritorni e ci penso io a metterlo al suo posto!
Askos non era mai stato particolarmente religioso, ma in quel momento si ritrovò a pregare che una qualche tempesta magnetica interrompesse quella chiamata: la sua giornata era stata semplicemente perfetta fino a che quelle due megere, madre e figlia, non avevano deciso di guastarla. Purtroppo per lui, però, gli dei scelsero di non ascoltarlo, e si ritrovò a dover allontanare il comunicatore per non rimanere assordato dalle urla miste a pianti isterici che provenivano dalla sua abitazione, a molti anni luce dalla Terra. Come sua moglie riuscisse a rovinargli l'esistenza anche da quella notevole distanza aveva un che di miracoloso: ci voleva talento!
Mentre mormorava scuse e procedeva a passo spedito verso la sua meta, Askos si trovò a domandarsi per l'ennesima volta perché diavolo si fosse sposato. Naturalmente sapeva già la risposta: la loro unione era stata decisa alla loro nascita, come accadeva per tutti i membri della classe agiata della sua razza.
Mai come in quel momento l'alieno invidiava i poveri.
Scuotendo la testa, Askos ricordò però a sé stesso che un povero non avrebbe mai potuto permettersi lei.
- Tesoruccio, ora devo proprio chiudere: sai, gli investitori...
Davanti a lui si stagliava una porta di un nero lucido, decorata da delicati pizzi di cristallo e neon che mandavano una leggera luminescenza azzurra.
- Ti richiamo appena finita la riunione. Ti amo.
Chiuse la chiamata senza neppure ascoltare cosa stessero dicendo le due befane dall'altro capo della galassia. In quel momento, per quello che gli importava, avrebbero anche potuto bruciare insieme ai chili di gioielli che sfoggiavano – a sue spese ovviamente. Non riusciva a credere che fossero passati due mesi dalla sua ultima visita, ma non gli era sempre possibile mascherare le sue scappatelle con impegni aziendali.
Bussò con impazienza, concedendosi un raro sorriso.
- Arrivo! - Cinguettò una voce femminile.
Karina. La donna più bella che Askos avesse mai visto. Un paio di occhi neri per i quali sarebbe valsa la pena morire uniti al genio affaristico di un ministro dell'economia, il tutto avvolto in un completo sexy del pizzo più pregiato dell'universo conosciuto. Askos si sentiva un privilegiato a poter godere della sua compagnia – e cercava di dimenticare che la sua compagnia costasse quanto il bilancio di una piccola azienda.
Già sentiva i suoi tacchi a spillo correre verso la porta che li separava, quando fu disturbato dall'ennesima chiamata. Sua moglie, di nuovo.
- Tesoro, quante volte ti devo dire che...
- Askos.
L'alieno impallidì. Sua suocera. Quando chiamava sua suocera, l'apocalisse era imminente.
- Oh, Aleyal! Che immenso piacere sentirti...
- Hai per caso dimenticato a casa la tua carta di credito a casa?
La sua voce melliflua e trionfante lo mise nel panico, mentre frugava disperato nella sua divisa: i dati dell'azienda erano lì, ma la sua carta...
- Sai, un fattorino me l'ha consegnata giusto ora. Era davvero mortificato. Diceva che la padrona del Sexy Kitten ti ha inseguito per mezzo pianeta nel tentativo di riconsegnartela.
Askos avrebbe voluto piangere.
- Ehm, posso spiegare...
- Askos, cosa ci facevi al Sexy Kitten?! EH?!
In quel momento, la porta si spalancò davanti a lui, e forse per la prima volta da anni, il sorriso di Karina non riuscì a rallegrargli la giornata.
Askos odiava la sua vita.
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Questa e' l'ultima volta
di Irene Grazzini
“Questa è l’ultima volta!” mi dico mentre fermo il furgone nel bel mezzo dell’incrocio e tiro il freno a mano. Questo ferrovecchio è un cimelio della vecchia epoca, va ancora a gas invece che a energia solare, e ha delle ruote sgangherate invece dei soliti ugelli jet che fanno sfrecciare le auto a quindici centimetri dal suolo. Mi chiedo dove l’abbia trovato Francisco, poi scrollo le spalle: in ogni caso non durerà a lungo ed è perfetto per il suo scopo.
E io ho pescato la pagliuzza più corta quando sono stati decisi i ruoli.
Pagliuzza o non pagliuzza, questa parte pericolosa e poco esaltante sarebbe toccata comunque a me. Sono l’unica ragazza della banda e non ho molta voce in capitolo. Poco importa se sono abile in quello che faccio, Francisco è il capo e non si discutono i suoi ordini.
“Ma questa sarà l’ultima volta” mi ripeto, ostinatamente, come faccio ormai da giorni e settimane.
Controllo l’ora, appurando che come sempre sono puntuale, poi mi azzardo a sbirciare fuori dal finestrino del passeggero. La via del Raval sembra tranquilla, con i suoi ampi marciapiedi e qualche palma che resiste chissà come alle scorie delle navi aliene. Loro non si preoccupano di inquinare il nostro mondo: quando sarà tutto distrutto, peggio di come è adesso, prenderanno le loro belle astronavi e toglieranno il disturbo per andare a guerreggiare da qualche altra parte. Noi umani faremo lo stesso. Forse. Se sopravviveremo.
Francisco e gli altri sono appostati sopra i tetti e scrutano la via sottostante in attesa. Nel cielo acceso di giallo polveroso scorgo il luccichio delle loro armi: spara-chiodi, balestre ad aria compressa, vecchie revolver, qualche pistola a onde d’urto. Non sarà la dotazione dell’euro-esercito, ma non è male. Francisco controlla anche il contrabbando delle armi e della droga, oltre che buona parte degli affari del Raval.
Mi chiedo perché il porta-valori abbia deciso di passare proprio di qui.
Il mio orologio mentale continua a ticchettare. Una manciata di secondi e dovrebbe arrivare, a meno che non sospettino qualcosa e abbiano cambiato strada...
Poi lo vedo. Un siluro di spesso metallo che scivola lungo la strada dissestata senza neppure sollevare la polvere. Si muove veloce nella mia direzione e per un attimo penso che ignorerà il mio ferrovecchio e mi travolgerà.
Invece si ferma.
Nell’aria immobile, lo scricchiolio di palo di ferro, piegato in due, da cui spunta ancora il cartello con il nome della via: Rambla del Raval.
Poi si scatena l’inferno.
Francisco e gli altri aprono il fuoco. Vedo i proiettili crivellare il porta-valori che deve contenere abbastanza crediti per comprare tutta Barcelona, perché adesso sono i dannati Grigi o i loro alleati a detenere la ricchezza sul pianeta. Vedo una possibilità che l’attacco così ben pianificato funzioni.
Ma poi vedo la raffica di plasma che si avventa sull’edificio dove si trovano i miei compagni.
Mi copro il volto con una mano, ma avverto comunque il calore della vampata che mi ustiona la pelle e mi ruba l’aria dai polmoni. Tossendo, scivolo fuori dallo sportello, dalla parte opposta del campo di battaglia, e mi getto a terra. Sotto le ruote del mio furgone, vedo che la via trasformarsi in un inferno e, oltre i fumi, le sagome che scendono da un secondo blindato impugnando fucili al plasma.
Adesso capisco perché il porta-valori è passato di qui.
È una trappola.
La polizia dei Grigi continua a sparare senza pietà. Il boato delle loro armi si mischia al fragore dei tetti che crollano. Mi chiedo se gli altri ce l’hanno fatta, ma nei miei sedici anni di vita ho imparato qualcosa dei Grigi: sono bravi a ripulire ciò che li infastidisce.
Sono di nuovo al posto di guida senza rendermene conto, il piede premuto sull’acceleratore. Il ferrovecchio tossicchia, poi fa un balzo in avanti. La scena infernale scivola alla mia sinistra e viene sostituita dalle vecchie case del quartiere che scorrono veloci, sempre più veloci, mentre premo il pedale a tavoletta e stringo lo sterzo fino a farmi male.
Solo molto più tardi, quando ho già lasciato il vecchio furgone troppo riconoscibile e sono lontana dalla polizia dei Grigi quanto da Francisco e la sua banda, sempre che esista ancora, le mie labbra si curvano in un sorriso.
È stata l’ultima volta.
Sono libera.
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Questione di sopravvivenza
di Irene Grazzini
Se c’è una cosa che ho sempre odiato sono le stazioni. Ferroviarie, navali, spaziali, non cambia molto. Sono i posti in cui è più facile lavorare, ma anche dove è più facile essere beccati da qualche poliziotto umano zelante, se sei fortunato, oppure dalla guardia armata dei Grigi. E allora non sei fortunato, affatto, perché quei bastardi di alieni spelacchiati non hanno alcun rispetto per gli umani. Hanno colonizzato la Terra solo da qualche decennio e già si comportano come i padroni assoluti. Forse lo sono. E noi dobbiamo rimboccarci le maniche per sopravvivere.
Beh, modestamente, io me la cavo abbastanza bene.
Mi faccio largo sotto l’immenso edificio senza pareti, formato da pilastri di ferro e un tetto di lastre di vetro incrinate in più punti. Tutt’intorno ci sono i turbo-treni, in attesa di decollare sui binari verso le loro destinazioni. È molto più grande di Barcelona Sants, dove anni fa Francisco mi mandava ad alleggerire i viaggiatori. Mi piaceva farlo, soprattutto se si trattava di Grigi. Che male c’è a rubare con loro, dato che ci hanno rubato il pianeta?
Numeri e nomi scorrono veloci sul pannello luminoso a lato dei binari. Numero 6, leggo attraverso i miei occhiali scuri. Poi lo noto.
Soltanto un movimento. Nervoso. Sospetto.
Mi volto lentamente verso l’uomo che ha attirato il mio sguardo. Sì, sicuramente un umano: non troppo alto, una zazzera di ricci scuri e la pelle abbronzata dal sole. E l’aria di chi sta per combinare qualcosa.
Di solito non mi impiccio degli affari altrui, ma questo “qualcosa” potrebbe scombinare i miei piani. Capisco di aver visto giusto quando l’uomo si aggiusta la giacca di eco-pelle, una giacca troppo pesante per la temperatura estiva di questo posto, e si dirige a passo svelto verso il gruppo di Grigi che sta salendo sul mio stesso treno.
Esito un attimo. Primo: non ho alcuna simpatia per i Grigi. Secondo: non posso intervenire in prima persona, è troppo rischioso. Mi farebbero domande a cui non ho alcuna voglia di rispondere.
Ma devo prendere quel treno.
Con un sospiro, do di gomito alla compunta signora che mi sta passando accanto e, con aria preoccupata, indico l’uomo.
– Mio Dio, quello ha una bomba – dico.
Perplessità, stupore e terrore. È incredibile come le emozioni possano mutare così in fretta sulla faccia della gente. La signora, come previsto, non si cura neppure di guardarmi per bene. Si porta le mani alla bocca e grida a squarciagola: – Una bomba!
Basta questo a scatenare il panico. La folla ondeggia, le grida si moltiplicano. Sopra le teste, scorgo ancora l’uomo: si è accorto di essere stato scoperto. Il disappunto si trasforma in feroce determinazione mentre si getta verso i Grigi, le mani che scivolano sotto la giacca...
La Polizia Grigia compare quasi dal nulla. E mi ricorda perché non mi piacciono le stazioni.
L’onda d’urto dei fucili colpisce l’uomo alle spalle, facendolo crollare sul pavimento in eco-cemento. Cerca di risollevarsi, ma la gabbia elettrica lo tiene ancorato e scintille di luce frizzano dolorosamente intorno a lui. Sotto la giacca ormai aperta intravedo il luccichio metallico delle bombe che portava alla cintura. Poi i poliziotti gli sono addosso e non vedo più nulla.
Approfittando della confusione, sono già sul treno prima che la signora compunta si riprenda abbastanza da guardarsi intorno e cercare la bella donna mora che con il suo avvertimento ha evitato una strage.
Non l’ho fatto certo per salvare i Grigi.
Questione di sopravvivenza, appunto.
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