Alla corte del Re
di Luca Pappalardo
Certi uomini, pur di presenziare alla corte del Re, sarebbero stati disposti a tutto. Vi erano favori che solo il Re poteva concedere, e quegli uomini lo sapevano bene. Accedere alla sua corte non era cosa facile, certo, e talvolta quegli stessi uomini si ritrovavano a dover pagare un prezzo a cui si immaginavano disposti solo nella fantasia (scontrandosi spesso con una realtà differente). Ma chi aveva il coraggio di fare quanto necessario, raramente finiva per rimpiangere la propria scelta.
Altri uomini, di più modeste ambizioni e di minor coraggio, preferivano (nell'inseguire i propri scopi) affidarsi alla legge del sovrano di Parìs, confidando nella bontà dell'ordine costituito.
Mentre scivolava lungo i vicoli bui di Montjaune, Davronche aveva pochi dubbi su quale monarca meritasse la sua ammirazione. Che signorotti e leccaculo restassero pure attaccati alle sottane del Re imparruccato e incipriato: lui avrebbe ottenuto il favore del vero Re.
Dove, nelle ore più buie della notte, anche i gendarmi si infilavano con cautela: quella sì era una Corte regale che sarebbe valsa la pena vedere! Fra melma, reietti e puttane, nelle profondità di una cava di calcare abbandonata, regnava l'uomo che aveva ottenuto il rispetto di tutta la feccia parigina: Nadrien, re dei farabutti, nume dei disperati, principe dei ladri.
A metà fra uomo e mito, Nadrien era il genere di lestofante sul quale le leggende si sprecavano: quella preferita di Davronche lo voleva accerchiato dai gendarmi dopo un colpo fallito, prossimo ad essere trafitto da una baionetta. Con la sola mano destra avrebbe afferrato la lama dell'arma, fermandone l'avanzata, e con la sinistra avrebbe abbattuto il gendarme in un singolo colpo, per poi fuggire dalle altre guardie troppo attonite per reagire.
Per un ragazzino giovane come Davronche non era stato facile arrivare a lui: c'erano voluti tempo, fatica e capacità di sopportazione. Ma alla fine era riuscito a farsi notare, superando la diffidenza e il divertimento di chi lo riteneva solo un ladruncolo fra tanti. Dopo mesi di fatica, sforzi e domande, uno degli uomini di Nadrien l'aveva avvicinato. Non il pezzo grosso in persona, ovviamente: un pivellino come lui non poteva certo sperare di incontrarlo subito, così, come se niente fosse. Ma era un buon inizio: se avesse voluto entrare nei ranghi del Re, avrebbe dovuto provare il suo valore con un gesto simbolico.
Il compito che gli avevano affidato era tanto semplice quanto grottesco: penetrare di notte nel Cimitero degli Ingenui e rubare il femore di un cadavere.
Al riparo dietro la Chiesa dei Poveri Ingenui, Davronche fissò con occhi velati di terrore lo spettacolo che gli si parava davanti: il luogo era oramai diventato impraticabile. Negli anni precedenti le piogge, complice l'uso eccessivo che era stato fatto dello spazio, avevano trasformato il suolo funerario in una macabra composizione di fango e morte. I cadaveri sporgevano dal terreno, alcuni parzialmente decomposti, altri quasi scheletri. Alcune tombe erano state sommerse dalla melma, altre avevano le lapidi distrutte. Trovare un femore non sarebbe stato difficile: gettarsi a capofitto in quel ricettacolo di orrore, però, era tutto un altro discorso.
Dopo qualche minuto e due respiri profondi, finalmente Davronche si decise: una nuvola oscurò la luna, facendo calare il buio sulla città e permettendo al giovane di scattare verso uno scheletro quasi completamente disseppellito poco distante da lui. Vedeva abbastanza bene da poter riconoscere il femore, afferrarlo e scappare nella direzione opposta a quella da cui era venuto: a contatto con la mano l'osso era freddo, secco, gli sembrava più fragile di quel che sarebbe dovuto essere. Respingendo un moto di disgusto, il giovane ladro continuò trionfante la propria corsa, prossimo a rituffarsi nei vicoli. Ma proprio quando stava per essere inghiottito dal buio dei palazzi, si ritrovò a sbattere il muso in terra: l'osso gli cadde di mano, rotolando via.
- A quanto pare voi mocciosi non avete rispetto nemmeno per i defunti.
Dritto disteso in terra, Davronche alzò lo sguardo: di fronte a lui troneggiava un uomo alto e massiccio. Aveva i capelli neri e lunghi fino alle spalle, la mascella squadrata e un folto paio di baffi neri. Alla luce della luna Davronché potè distinguerne lo sguardo: fermo e penetrante, in due occhi neri come il carbone. A coronare il tutto e sancire la definitiva sfortuna del ladruncolo, l'uomo indossava quella che sembrava essere proprio una divisa da gendarme.
- Allora, moccioso? Hai qualcosa da dire?
- Ehm... Io stavo solo passando per di qui, non so cosa intende...
- Non mi raccontare fesserie, sei venuto a rubare nel cimitero vero? A rompere qualche lapide per divertirti? Dovrei portarti dritto in caserma.
Le cose volgevano al peggio e Davronche non sapeva che pesci prendere. Steso a terra, dolorante e immobile, con un gendarme prossimo a chiudergli le manette ai polsi, pregò silenziosamente San Dismà affinchè lo tirasse fuori dai guai.
- Ma per stasera mi sento buono. Mettiamola così, fai una cosa per me e potrai andartene.
Davronche lo fissò con sospetto:
- Cosa dovrei fare?
L'uomo, di rimando, gli ghignò: – È molto semplice: leccami la suola dello stivale destro e augura lunga vita al sovrano e alla monarchia. Fallo e potrai andartene. Altrimenti ti aspetta la galera, se non peggio.
Davronche fissò l'uomo dal basso verso l'alto per qualche attimo, in silenzio. Quindi, steso com'era di fronte a lui, alzò la testa quanto bastava per sputargli sui piedi. L'uomo rimase immobile, guardandolo.
- Molto bene. Avrai ciò che meriti.
Davronche lo vide alzare la mano destra e chiuse gli occhi, pronto a ricevere il colpo. Ma dopo secondi interminabili si rese conto che il colpo non arrivava. Si azzardò ad aprire gli occhi, solo per vedere quella stessa mano tesa di fronte a lui, in un'offerta di aiuto.
Confuso e ancora pieno di sospetto, ma troppo spaventato per rifiutare quell'occassione, la afferrò e si alzò in piedi. E mentre lo faceva notò due cose.
La prima era che la notte attorno a lui si era popolata: in cima ai tetti, da dietro i muri, sbucate fuori dall'aria stessa, stavano una decina di persone – uomini e donne, per la maggior parte vestiti di stracci e tutti quanti accomunati dall'inconfondibile lezzo della povertà. I loro sguardi erano tutti su di lui: alcuni, notò, davano di gomito ad altri. Altri ridevano, ed altri ancora si limitavano a fissarlo a braccia conserte.
La seconda cosa che notò fu la cicatrice larga un pollice che attraversava da parte a parte il palmo della mano destra dell'uomo. Quello stesso che ora, sorridendo con una malizia quasi diabolica, gliela porse da stringere: lo scintillio nei suoi occhi era una promessa di follia, successo e insieme ambizione.
- Ben fatto, Davronche. Benvenuto alla corte del Re.