Dei o straccioni?
di Luca Mencarelli
Apparvero all’orizzonte di una mattina come tante, un puntino nero che vacillava sulla cresta delle dune. Poi si scisse in una figura, due, dieci, un’intera folla che avanzava tremolando sullo sfondo sabbioso. Saliva in alto, sul picco di una duna, e poi sprofondava in basso, fino a riapparire sopra a quella successiva, un po’ più vicino. Un continuo saliscendi che rifletteva sul paesaggio i tratti dell’animale simbolo di quell’ambiente: il dromedario.
Alla fine, quando furono a circa metà di tiro d’arco dall’accampamento, io e gli altri ragazzini potemmo distinguerli con precisione dall’alto delle palme su cui ci eravamo arrampicati. Una processione muta e cenciosa di vecchi, donne e bambini che si trascinava stancamente crinale dopo crinale. Granello dopo granello.
Chi erano? E soprattutto, da dove venivano? A giudicare dalla posizione del sole, che batteva impietoso di fronte a loro, provenivano da occidente, ma tutti sapevamo che era impossibile. Sì, perché al di là del mare di sabbia si innalzavano gli impenetrabili monti che segnavano la fine delle terre abitate. E più oltre l’oceano delle acque che abbracciava l’intero mondo. Così ci avevano insegnato, sebbene fosse difficile per noi immaginare una tale distesa marina, abituati come eravamo alle sporadiche polle che emergevano qua e là insieme alle palme. Se nessuno, oltre a noi e alle tribù più a sud, abitava in questa parte di deserto, chi potevano essere quegli sconosciuti? Il timore e la curiosità montavano in noi, di pari passo con il loro tragico incedere.
Il sole aveva ormai compiuto metà del suo tragitto nel cielo, e per allora la notizia degli stranieri in avvicinamento si era ormai sparsa tra le tende, quando essi giunsero al limitare del campo. Senza dire una parola vennero scortati dagli adulti fino alla tenda centrale, per essere rifocillati e riposare, come si usa fare tra i popoli del deserto quando si incontra qualcuno in difficoltà. Prima lo si aiuta, poi ci si conosce.
Mentre ci passavano davanti li osservammo meglio. I loro abiti, sebbene logori e coperti di sudicio, emanavano una flebile bellezza, lo splendore residuo di un tessuto prezioso e a noi sconosciuto, e allo stesso tempo davano l’idea delle peripezie che dovevano avere affrontato nel lungo tragitto fin lì. I loro occhi erano velati di una patina grigia, come se il vento del deserto vi avesse depositato l’intera polvere che ricopre quelle distese desolate, ma in fondo a quelle orbite si poteva ancora notare uno scintillio ardente. Estrema testimonianza di un antico orgoglio tenace a morire. Il dettaglio che però ci colpì di più fu il loro portamento. Le loro schiene erano piegate. Ma non per la stanchezza, no, anche noi conoscevamo le fatiche di quelle traversate, e avevamo visto altri stranieri ridotti ben peggio di loro. No, non erano incurvati a causa della stanchezza, la ragione doveva essere un'altra. Era come se portassero su di sé il peso di tutti i peccati di questo mondo.
Dei nobili decaduti. Questa l’idea che ci facemmo.
-Sono tornati.- Disse il vecchio Assouf, masticando quelle parole sibilline insieme a qualche dattero, e mentre noi ci chiedevano che senso potessero avere, scomparve all’interno della sua tenda.
La sera, stretti intorno al fuoco per scacciare via il freddo delle lunghe notti sahariane, gli stranieri si unirono a noi. Allora, davanti alle fiamme tremolanti che si riverberavano sulle rughe dei loro volti, potemmo vederli da vicino, e ci rendemmo conto che la nostra prima impressione era sì giusta, ma sfiorava solo pallidamente la realtà. Le dita lunghe e affusolate appartenevano a mani di sovrani, non di lavoratori. Le facce riarse tradivano una pelle non abituata al sole impietoso del deserto. Lo sguardo era quello triste e fiero di chi un tempo contemplava le stelle e adesso è costretto a fronteggiare la miseria.
Quelli non erano semplici nobili. Si trattava di dei. Dei scacciati dai cieli.
Sedevano insieme, ammucchiati come un gregge spaventato, e nonostante l’aiuto ricevuto sembravano timorosi di noi.
-Da dove venite?- Chiese il nostro capotribù.
Ma dalle loro espressioni interrogative deducemmo che non capivano la nostra lingua.
Si fece allora avanti il vecchio Assouf, il custode della storia. La conoscenza del passato della nostra tribù gli era stata tramandata da suo nonno, che aveva ricoperto quel ruolo prima di lui, e ancor prima c’era stato il nonno di suo nonno, e così via in una catena interminabile di generazioni che risaliva fino all’origine del cielo e della terra. L’anziano dischiuse le labbra sdentate e fece uscire un suono melodioso, un siero di tè e miele che ci incantò tutti. Un amalgama di parole sconosciute, mai udite prima, che profumavano di paesi remoti nello spazio e nel tempo.
Nell’udirle, quelli ebbero un sussulto all’unisono. Evidentemente avevano capito il significato della frase. Un uomo, che dall’aspetto sembrava aver superato di molte lune l’età media di un uomo, si fece avanti. E mentre le lacrime cominciavano a incanalarsi lungo i suoi lineamenti crepati, rispose con una cantilena, a metà tra un lamento e una preghiera:
-Atlantide.-
http://www.wizardsandblackholes.it/?q=lultimogiornodiatlantide